Cultura

La memoria di Manolo

«Se Manolo esce dalla tomba viene qua e ci stacca la testa a tutti». E perché, dona Rosa? «Guarda, quella è la sede della Ugt, il sindacato che ha collaborato […]

Pubblicato circa 11 anni faEdizione del 19 ottobre 2013

«Se Manolo esce dalla tomba viene qua e ci stacca la testa a tutti». E perché, dona Rosa? «Guarda, quella è la sede della Ugt, il sindacato che ha collaborato col franchismo. Proprio qui, in Placa Manuel Vazquez Montalban!».
Dona Rosa Gil è furibonda appassionata definitiva. Figlia di un torero e vedova di un altro – che la lasciò incinta per farsi incornare a morte poco dopo le nozze – Rosa è signora e padrona di Casa Leopoldo.

Casa Leopoldo è l’eccellente ristorante catalano nella piazza che dal 2009 Barcellona ha dedicato a Manuel Vazquel Montalban, nel barrio povero del Raval. Qui lo scrittore sbrigava tutti i suoi affari, incontrava giornalisti, editori, amici e postulanti, e naturalmente si abbuffava di fideos a la cazuelabutifarra. Se n’è andato oggi fanno dieci anni, il cuore decise di fermarsi in un non-luogo, l’aeroporto di Bangkok. In esequie pubbliche degne di un Nobel, con folle oceaniche e canali unificati, finiva una storia e cominciava un mito, e alla fine chiunque si è iscritto alle liste degli adoratori, forse troppi. Lo scrittore spagnolo contemporaneo più letto e tradotto del mondo, l’autore per cui erano finiti gli aggettivi.
Ma per Rosa, e per noi del manifesto, Montalban era Manolo.
Poeta, giornalista, scrittore, gastrosofo, comunista impenitente e impertinente, essere umano lucido, critico, scettico e per questo felice solo a tratti, Montalban è stato consapevolezza e prospettiva insieme, e in ciò risiede la peculiare grandezza della sua traiettoria. «Sarai libero solo arrivando a Memoria, la città dove abita il tuo unico destino», aveva scritto in Ciudad, e di memoria ne aveva e tanta, crimine imperdonabile in un paese che anela l’oblio, che desidera essere nato oggi, seppellendo nel nulla la sua lunghissima dittatura fascista, le sue molte connivenze, i suoi sopravvissuti senza passato per poter avere un futuro. Manolo il padre l’aveva conosciuto a cinque anni, quando era uscito di galera. Di galera se ne sarebbe fatta qualche anno a sua volta, dal ’62 al ’65, e appena uscito fece subito un figlio, Daniel, scrittore e giornalista anche lui (e anche lui sul manifesto, serve dirlo?). Daniel che proprio oggi presenta a Barcellona, una biografia che è la narrazione del rapporto tra padre e figlio.
Rapporto complicato, come la biografia di Manolo. Famiglia operaia povera, laurea in lettere, scuola di giornalismo, poi la politica nel Psuc (il partito comunista catalano), il carcere per antifranchismo a Lerida, le prime raccolte di poesia. Mentre l’amica Myriam Sumbulovich lo rimpinzava di italiani, Gramsci, Calvino e Pavese, soprattutto Pavese. Myriam, che col nome di Hado Lyria diventerà la sua traduttrice in italiano.
Manolo univa un’implacabile fedeltà alle proprie idee a un altrettanto implacabile lontananza dall’ortodossia di partito, e una leggerezza che gli permise di evadere da se stesso con la ventina di romanzi del detective Pepe Carvalho e la passione per il cibo. Quando iniziò con Carvalho, nel ’72 con «Ho ucciso J.F. Kennedy» e nel ’74 con «Tatuaje», la novela negra era considerata sub-letteratura e la cucina d’innovazione spagnola un’eresia. Quando ebbe finito il poliziesco era letteratura alta e la gastronomia iberica il tetto del mondo. Le sue ceneri sono state disperse a Cala Montjoi, davanti alla spiaggia nei pressi di El Bulli, l’ormai leggendario ristorante del super-chef e amico Ferran Adrià. Dovendo prendere il palazzo d’inverno, Manolo avrebbe cominciato dalle cucine.
In Italia arriva nel 1980 «Manifesto subnormale», poi sbarca Carvalho e il resto è storia. All’inizio degli anni Novanta era già un nome, e il manifesto spedì un’inviata a sbronzarsi di manzanilla nel bar dell’albergo Astoria e poi a Casa Leopoldo (dove altro?) finché disse sì. Ma se Pepe Carvalho «gli serviva per respirare», come racconta Daniel, la penna lo trascinava altrove. Tra l’altro all’eccezionale biografia «Io, Franco», del ’93. Avessimo avuto in Italia qualcuno in grado di descrivere Mussolini – l’uomo, l’epoca storica, il personaggio – con lo stesso vigore e rigore. Le gambe lo trascinarono invece alla grande marcia zapatista a Città del Messico e poi a Porto Alegre al Forum sociale mondiale. Era uno di noi. È uno di noi.

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