Un mondo riemerso, ancora fradicio, grondante – rivoli, gore, ampie pozzanghere nella plaga sabbiosa, tra i ruderi vegetativi –; mondo sonante d’archi – pieni di umori, di un che di ventoso, di febbrile, tutt’uno con l’aria igroscopica –, evocato, tratto non solo dagli spazi sommersi, ma anche dai baratri temporali, quelli del passato, ossessione per «l’uomo di immaginativa e di sentimento nel tempo del suo entusiasmo» direbbe Leopardi. Cioè per Ernst Bollinger, artista di grande fama, alla ricerca del tempo perduto, del paese perduto sotto la marea, che lo ricongiunga all’infanzia.

È L’INIZIO della Memoria del mondo di Mirko Locatelli, nella sezione Nuovimondi al Torino Film Festival, trionfo di campi lunghi, piani-sequenza, lenti movimenti di macchina in funzione di un enigma fondamentale, che non è tanto – o non è solo – la sparizione di una donna (controcampo di Identificazione di una donna), ma l’identità dell’immagine cinematografica, le sue proprietà spazio-temporali, la sua pasta luminosa capace o no di carpire un frammento del passato, di un borgo, una grotta, il sole, il sogno del melocotogno. Allora non tanto – o non solo – le rovine a cui Walter Benjamin dava un significato ultra-dialettico, rivelativo, ad esempio quelle tarkovskiane dell’Abbazia di San Galgano, o quelle in cui il poeta andava alla ricerca di parole nell‘Eternità e un giorno e che ora, della stessa sostanza, sono l’ossessione di Bollinger; ma il cinema, il referto spettrale dell’immagine, il meccanismo rudimentale e arcano di imprimere forme, fantasmi, fibre funeree su una pellicola: ecco la memoria del mondo. In effetti il film è un ragionare continuo intorno alle possibilità espressive – ma direi proprio organolettiche – dell’immagine, dell’inquadratura, svelando in ogni momento la natura cinematografica, estetica del quadro, del riquadro in cui spesso si aprono concentricamente altri schermi: specchi, porte, ampie finestre, finanche, ripetutamente, la cabina della doccia in cui Adrien rimugina tra i vapori.

FILM importante, dalle grandi ambizioni quello di Locatelli – che sembra volersi ricongiungere, con rito acquatico, abluzione lagunare, ad Antonioni, Tarkovsky, Angelopoulos, a un’idea di cinema classico, laconico eppure sonante attraverso la protratta, stupefatta apertura dell’otturatore – affiancato come sempre dalla sceneggiatrice Tarantelli. Il film, nonostante il peso, la responsabilità di non dover tradire e neppure replicare i modelli che si porta appresso, che non possono non trasparire già dalla prima sequenza, tiene fino alla fine, procede negli acquitrini col «passo sospeso della cicogna» fino alle spoglie emerse, la cui carne umida e fremente dice, mima mediante la propria immobilità risonante, la muta, immotivata scomparsa di Helena e la nostalgia di Bottinger, ma anche – e forse di più – quella di Giulio e Adrien, il quale del resto annota sul suo nastro magnetico che il maestro è «malato di nostalgia e non ha paura di mostrarlo». I tre a poco a poco si stringono in un sodalizio sotteso nel tentativo di ritrovare la donna perduta, ma anche, segretamente, di erodere la solitudine che li tiene, la nostalgia per il passato che non torna, un borgo sommerso dalle acque; gli avi riuniti in un cimitero marino; o per qualcosa che ancora deve accadere.