Tra i registi più coerenti, anche ostinati, nel panorama cinematografico italiano – oltre che appartati, sperimentatori intorno alle figure, soprattutto le figure umane: uno dei motivi, forse, per cui piaceva molto a Bernardo Bertolucci –, Mirko Locatelli è ormai al suo quarto film, La memoria del mondo, opera fatta di reliquie sommerse, acque rafferme, paludari, brume nei cui meandri sembra perdersi l’individuo, il personaggio, eppure, in qualche modo – nell’unico modo possibile, quello eidetico, cinematografico: l’immagine, le figure che riemergono dal nulla delle nebbie – si ritrova, presente a se stesso (e agli altri: questo è il punto, il rapporto con gli altri), al di là delle stanche nenie, delle biascicature degli spazi, dei sibili provenienti dagli sfondi fradici, che apparentemente tramano per acuire la sua solitudine eppure saranno il preludio a un’esistenza più vasta, luminosa, pare, vista attraverso i riflessi di una cinepresa rudimentale, con sagome umane adiacenti.

È IL PRESUPPOSTO umanistico di questo cinema, già delineato nell’esordio folgorante di Locatelli alla Mostra di Venezia del 2008, Il primo giorno d’inverno: la concentrazione intorno alle figure umane, al loro stretto rapportarsi, ai meccanismi di attrito o altrimenti di attrazione che riguardano il loro essere, il loro franto, contraddittorio stare al mondo. Come quello dei Cormorani, il film (bellissimo) diretto nel 2016 da Fabio Bobbio, montatore fidato di Locatelli che del resto ne è il produttore, in cui l’incontro e lo scontro tra ragazzini, la loro ruvida ingenuità, sono atavici, archetipici. E allora ecco il conflitto di Valerio – le vessazioni subite, poi inferte – con due suoi compagni nel Primo giorno d’inverno, prima di un finale in cui c’è qualcosa di simile a un abbraccio disperato nel contesto plumbeo del solstizio d’inverno; e nei Corpi estranei, la diffidenza, anche il disprezzo preventivo di Antonio (Filippo Timi) verso l’adolescente arabo Jaber; o il rapporto ambiguo che si sviluppa tra l’astronoma interpretata da Ariane Ascaride e il giovane Davide in Isabelle; fino al tacito indagarsi, quasi annusarsi a distanza, cani randagi – «randagi della vita» direbbe Rosso di San Secondo – fra i tre protagonisti della Memoria del mondo, che alla fine si ritroveranno meno soli alla luce del sole artificiale di una macchina da presa.
Il contenuto metacinematografico – la ripresa come oggetto del film, la possibilità di immortalare il ricordo o ciò che ne resta, recuperando per un momento il tempo perduto – è evidente in questo che appare come il film più maturo e ambizioso di Locatelli: luogo in cui si intrecciano le vicende di tre personaggi alla ricerca di qualcosa di remoto, mitico, del loro retaggio, delle effige o delle tracce di questo retaggio.

 

Il regista milanese sarà presente alla rassegna «Registi fuori dagli scheRmi» giovedì 16 febbraio alle 20,30 presso l’Anche Cinema di Bari, per un’anteprima della Memoria del mondo, in attesa che il film venga distribuito nei prossimi mesi. Con lui ci sarà la sceneggiatrice Giuditta Tarantelli, reduce dal premio per la miglior sceneggiatura (scritta insieme al regista) ricevuto nel 2018 al Festival di Montreal per Isabelle. Ma nella Memoria del mondo la scrittura è ancora più densa – sembra assumere la forma acquorea, torbida del contesto, e riflettere il senso di freddo che essudano i muri, le stanze in eco. Una coscienza grondante nella solitudine della laguna apparente, tra lucerne, lunule, guazzi di remi – che ha la struttura di un prisma, aperto non sulla realtà, ma su varie declinazioni di realtà: diramazioni che portano ora in grotte recondite, ora nella casa gelida di Giulio (il barcaiolo) e finalmente sul suolo improvvisamente riemerso, del paese d’infanzia di Bollinger, l’artista nostalgico. E sposta di volta in volta, in un sistema di raccordi mimetico, ecologico direi, l’attenzione su personaggi e situazioni diversi per poi farli collimare, arricchendo la narrazione con riflessioni letterarie, diaristiche, rimuginazioni di un io, quello di Adrien (un ottimo Fabrizio Falco), dedito alla scrittura, alla ricerca di sé, del proprio fondo inconscio, nella farragine, in una palude che sibila di silenzio.