La memoria collettiva trasforma le coscienze
«Archivi impossibili» da Johan & Levi Dall’Atlante di Richter al Museo di Broodthaers allo schedario di Haacke. Cristina Baldacci ha studiato in chiave foucaultiana il crescente interesse per la forma-archivio da parte degli artisti contemporanei
«Archivi impossibili» da Johan & Levi Dall’Atlante di Richter al Museo di Broodthaers allo schedario di Haacke. Cristina Baldacci ha studiato in chiave foucaultiana il crescente interesse per la forma-archivio da parte degli artisti contemporanei
Una delle più interessanti scoperte scientifiche del Novecento la dobbiamo alla ricerca fenomenologica portata avanti in Germania da Edmund Husserl. Già sul finire del XIX secolo, il filosofo moravo stava concependo uno dei pilastri fondamentali dell’intera dottrina fenomenologica e, verrebbe da dire, dell’intera storia della filosofia novecentesca: quello relativo alla qualità intenzionale della coscienza. In accordo con quanto già ipotizzato dal suo maestro Franz Brentano, Husserl affermò che ogni processo cognitivo interno alla coscienza umana è sempre diretto verso un oggetto, ha sempre l’intenzione di rivolgersi a qualcosa di diverso da sé. In altri termini, non esiste nessuna percezione o pensiero che non riguardi l’oggetto, il non-io del mondo che sta in opposizione al soggetto pensante. In questo senso, la coscienza per Husserl ha sempre valore trascendentale, in quanto sempre diretta verso una realtà altra, sempre protesa verso ciò che le è estraneo, sempre rivolta al mondo oggettuale delle cose. Il pensiero cessava così di essere un ente a sé, svincolato dai suoi contenuti, quasi un’essenza atemporale posta sul piedistallo dell’immortalità e della pura idealità. Ragione e mondo venivano legati saldamente uno all’altro, senza più possibilità di trovare la prima in assenza del secondo, come se la consistenza concreta delle cose fosse un accessorio o un’appendice di cui poter fare a meno.
Da qui, una delle conseguenze più maestose per la storia della filosofia fu l’entrata in campo di un pensiero diametralmente opposto a quello dell’identità. Infatti, anche grazie alla teoria dell’intenzionalità di Husserl, durante il Novecento si sviluppò una teoria della differenza, un’interpretazione della realtà secondo cui non è possibile chiamare in causa un concetto o un’idea senza riferirsi contemporaneamente a ciò che quel concetto o quell’idea non sono. Ed è proprio un pensiero della differenza che può aiutarci a interpretare l’opera di Foucault e in particolare Archeologia del sapere del 1969, uno dei testi che maggiormente ha contribuito a spiegare la struttura delle nostre società, delle nostre infrastrutture culturali e dei legami che tengono insieme sapere, potere e individuo.
In questo caso, il termine «archeologia» assume con Foucault una sfumatura per niente scontata. Usandolo, il filosofo francese non vuole indicare una disciplina volta a riportare alla luce qualcosa di inerte, fermo al significato che poteva aver avuto in un’epoca passata. Piuttosto, per Foucault «archeologico» è il tentativo di rinvenire le caratteristiche intenzionali di ogni discorso e linguaggio, il loro essere non solo descrittivi, ma anche attivi, orientati a cambiare e interpretare lo stato delle cose. Come per la coscienza di Husserl, il discorso per Foucault è sempre associato a pratiche, riti, abitudini sociali che influenzano il mondo e lo trasformano. Da questo punto di vista, una parola non è mai solo una parola. Un discorso o un enunciato portano con sé tutto un insieme di pratiche collettive e politiche che ne motivano l’uso e la comparsa; in modo essenziale, hanno a che fare con la gestione del potere e dei costumi di una determinata organizzazione sociale.
Questa può forse essere una chiave di lettura utile per approcciarsi al volume Archivi impossibili di Cristina Baldacci edito da Johan & Levi (pp. 224, € 22,00). Infatti, già dalle prime pagine la storica dell’arte milanese chiama in causa proprio Foucault per spiegare sùbito cosa intende con il termine «archivio». Riprendendo l’autore di Le parole e le cose, l’archivio è «un dispositivo critico capace di rigenerare le consuete logiche di salvaguardia, utilizzo e diffusione del sapere, di riattivare la memoria e la coscienza politica». Come per la «rivoluzione» operata da Husserl in ambito fenomenologico, anche qui il concetto di archivio viene ribaltato. Non più mero raccoglitore di dati asettici e freddi, l’archivio diviene operazione di cernita e selezione, perimetrazione di tutti quegli enunciati e significati che siamo autorizzati a usare per dare senso alle nostre azioni e al mondo che ci circonda.
Secondo Baldacci, è sotto questa luce che può essere spiegato il rinnovato interesse che per la «forma archivio» hanno dimostrato molti artisti contemporanei. «Dall’atlante di Gerhard Richter, una collezione di migliaia di immagini utilizzate come fonti iconografiche per la pittura, all’album di Hanne Darboven, una monumentale cosmologia che condensa storia personale e memoria collettiva, al museo di Marcel Broodthaers, un sagace strumento di critica istituzionale, allo schedario di Hans Haacke, un mezzo di indagine e di impegno sociopolitico, il furore archivistico si è ormai impossessato della pratica artistica».
Per interpretare l’opera di ognuno di essi, l’autrice ricorre a un assioma ben preciso e precipuo: «il bisogno di classificare accompagna quei momenti della storia in cui si percepisce con maggiore intensità una crisi della conoscenza». Da qui già si intuisce che la scelta di definire «arte» la forma-archivio implica una concezione estetico-espressiva ben precisa: un gesto diventa artistico solo allorquando sia in grado di dialogare e prendere parte ai mutamenti sociopolitici di un territorio. In questo senso l’archivio diventa una forma d’arte nel momento in cui venga inteso come parte attiva della vita della collettività. Quella che Baldacci, nel sottotitolo di Archivi impossibili, definisce «un’ossessione dell’arte contemporanea» trova così una spiegazione dal sapore sociologico: nelle fasi in cui l’umanità tende a rimettere in gioco conoscenze, valori e modelli di riferimento teorico-comportamentali, aumenta il bisogno di classificare le informazioni in nostro possesso, come a voler trovare un contrappeso rispetto alle categorie divenute ormai fluide e inafferrabili. E il riferimento alla fluidità dell’esperienza contemporanea non è casuale. Perché è inevitabile che parlando di archivi Baldacci chiami in causa una delle trasformazioni epocali che stanno investendo il nostro tempo: quella relativa alla digitalizzazione della conoscenza e dell’informazione.
In fondo, gli artisti sopra citati non starebbero facendo nient’altro che questo: classificare là dove è divenuto ormai molto impegnativo imprimere una scala di valori alla mole ingente di informazioni che quotidianamente riceviamo. Come a dire, più «assumiamo» senza soluzione di continuità dati, fatti e nozioni, più si rende necessario un guardiano che li passi al vaglio della propria coscienza e abbia il coraggio di lasciare fuori qualcosa. Con i loro archivi di foto, ritagli di giornale e manifesti, Broodthaers, Darboven, Haacke e Richter hanno fatto proprio questo. Hanno riconosciuto all’archivistica un ruolo nient’affatto passivo o utilitaristico, anzi, lo hanno investito di una missione a ben vedere molto più alta e nobile. Quella della trasformazione delle coscienze. Perché – riprendendo il riferimento a Husserl – la coscienza non è mai astratta e sganciata dalla realtà. La coscienza è sempre coscienza di qualcosa e questo qualcosa, se non è deciso da noi, è deciso da qualcun altro. Il che, detto in altri termini, equivale a una perdita di libertà e autonomia; a lasciare cioè campo libero ai dispositivi attraverso cui il potere «sorveglia e punisce».
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