Visioni

La mediazione dell’immaginario

La mediazione dell’immaginarioUna scena da Historia de la meva mort di Albert Serra

Locarno 66 In concorso Historia de La meva mort di Albert Serra, la sinergia tra arte visuale e mezzo cinematografico

Pubblicato circa 11 anni faEdizione del 15 agosto 2013

Il copione era più che prevedibile eppure di fronte alla campagna scatenata contro Sangue si rimane stupefatti. Se in Italia ci vanno giù duro per la scelta di portare sullo schermo un «efferato brigatista», in Svizzera attaccano oltre il film, il festival, la Cineteca e la Televisione svizzera (con un’interrogazione voluta da due consiglieri della destra) che lo hanno prodotto. A parte il fatto che Giovanni Senzani ha regolato i suoi conti con la giustizia, il film di Delbono non è affatto una sua celebrazione. Nel movimento della vita, in cui rientra anche l’incontro con quest’uomo, l’autore ci porta all’estremo del suo viaggio nella morte: il corpo della madre, e il racconto di Senzani dell’uccisione di Peci, un primo piano che è una presa di coscienza implacabile perché spogliata dall’ipocrisia dei finti giudizi.

E si capisce bene la «mediazione« dell’arte, lo spazio dell’immaginario che è detonatore forse più pericoloso, ascoltando le parole di Masao Adachi, grandissimo regista giapponese della Nouvella Vague, complice di Wakamatsu, militante nella lotta per la liberazione della Palestina a fianco dell’ Armata Rossa Giapponese negli anni Settanta. «L’impegno nasce dalla perseveranza, mi piace l’attivismo dei giovani ma non credo che il sistema si cambi occupando Wall Street, si deve perseverare nella resistenza. Mi chiamano ex terrorista ma non credo che ex sia un prefisso che si possa applicare a terrorista. La resistenza continua sempre e oggi dobbiamo rinnovare la lotta mentre noi non abbiamo lasciato molte vie di uscita a chi è venuto dopo».

Il film è The Ugly One (Cineasti del presente) diretto da Eric Baudelaire da una storia di Adachi, i due si erano conosciuto per il precedente film del regista francese, L’Anabase, ispirato alla vita di Fusaku Shigenobu, la leader dell’Armata rossa giappionese, con cui Adachi ha condiviso la lotta in Libano. Fusaku è stata arrestata qualche anno fa, e in effetti più di lei il film raccontava della figlia, May Shigenobu, che fino a quel momento non era esistita nascosta dalla clandestinità della madre e cresciuta senza un’immagine. La ricerca di quelle immagini, la memoria di Adachi e quella della ragazza erano «l’anabasi» del film. Anche The Ugly One lavora sulla stessa ricerca, le immagini che Adachi non può più girare in Libano perché dopo l’arresto (e gli anni di galera in Giappone) non può più tornarci, e quindi chiede a Baudelaire di realizzare per lui. Ma anche le immagini che il regista cerca nella sua esperienza e quelle di una guerra civile, dell’idea di una rivoluzione e di un presente in cui tutto si confonde di nuovo.

Nella scrittura del film, entra poi Rabih Mrouè, artista, drammaturgo, autore di un testo molto forte sulla guerra civile libanese (vietato in Libano), How Nancy Wished That Everything Was an April Fool’s Joke , e di un’intallazione fotografica composta da una serie di fotografie scattate col cellulare a Homs in Siria durante i massacri del 2011/12. Interpreta il ruolo di Michel, amante di Lili, una donna imprigionata nel ricordo di un’azione terroristica, l’esplosione di un autobomba che ha ucciso una bimba negli anni della guerra civile. Passato e presente, realtà e finzione si intersecano nello straniamento del racconto. Fino all’oggi, in cui ci si ritrova in un presente di scelte diverse, schierato con altri fondamentalismi, altre guerre civili che servono a distruggere memoria e resistenza. E le immagini diventano invece il luogo di questa resistenza, la possibilità di sperimentare – come il personaggio di Mrouè ci mostra – antagoniste declinazioni della Storia, portando alla luce le contraddizioni più che le certezze. E questo ne fa un film potente anche nell’imperfezione che non riesce a controllare il proprio dispositivo cinematografico fino in fondo.

Albert Serra è uno dei registi prediletti dalla nuova cinefilia internazionale, scoperto con Honor de Cavalleria è diventato subito un «must», i suoi film esprimono quel «gusto dei tempi» la sinergia tra arte visuale e cinema e la ricerca di una diversa vita delle immagini. Historia de la meva mort, Storia della mia morte (in concorso), mette anch’esso al centro la ricerca sulla materia dell’immagine, girato con la pellicola (di cui in questi giorni Vassili Boutikas, curatore e scopritore di tendenze celebra un Funeral Party in Grecia insieme a registi tra cui Ben Russell), e poi passato in digitale, dispiega un quasi catalogo dell’arte figurativa, cercando in questa sintesi quasi un’impossibile ricomposizione, i chiaroscuri, la natura (siamo nel XVIII secolo), la prospettiva del riflesso e dello specchio, e quel doppio che è ragione e sentimento, illuminismo e lato oscuro.

Il suo orizzonte libertino e razionale si scontrerà con un romanticismo irrazionale e «nero», che scatena forze incontrollabili e che nessun voltairismo riesce a spiegare.[do action=”citazione”]L’idea è Casanova che incontra Dracula, il vecchio seduttore che ovunque ha viaggiato si mette in cammino con un nuovo servo. Lascia il comodo lusso del suo castello in Svizzera e si avventura nell’Europa dell’est, nelle terre oscure della Romania.[/do]

Tra i due estremi, che sono il fondamento stesso del mondo – e dell’umano- si snoda un po’ l’intera mitologia occidentale, l’iconografia del desiderio e della sessualità, delle pulsioni e della tensione al divino (Faust), della vertigine e della paura, dell’apollineo e del dionisiaco che sono un abbraccio impossibile e mortale. La maschera del Seduttore, messa a nudo spesso da De Oliveira riferimento obbligato quello del cineasta portoghese in questo lavoro di Serra, almeno in superficie perché poi il movimento del regista catalano va in direzione quasi opposta, non ha la crudeltà davvero implacabile e libertina di De Oliveira,. Ma è forse proprio questo eccesso di «trama» che appesantisce il film, i cui momenti magici sono le epifanie improvvise, quando l’intreccio obbligato di pensiero/immagine/parola si scioglie nella luce, nella dolcezza di un crepuscolo, in una seduzione impossibile. La prima sequenza, è bellissima, un lungo piano su una tavolata e mentre il poeta si chiede come esprimere la vita, due ragazzi rimangono sospesi nella seduzione finché lei si alza e va via.

La seduzione. Che se è l’oggetto del film è anche la sua grande mancanza., Casanova fa sue le donne in maniera compulsiva senza capire cosa cova in quel bosco – nel film non c’è orizzonte siamo sempre immersi nell’ombra del fogliame metafora forse un po’ facile … – dove ondeggiano le loro pulsioni. Il Vampiro è invece colui che trascinando le donne dall’altra parte ne libera la seduzione sabbatica e stregonesca, il lato oscuro appunto. E il film del resto è declinato rigorosamente al maschile, l’idea della donna che esiste grazie a uno o l’altro è ciò che più li accomuna. Infine la Tenebra, forse più affascinante, risucchia la Ragione. Ma la seduzione è un po’ più misteriosa.

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