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La Mavi Marmara e l’innocenza perduta

La Mavi Marmara e l’innocenza perduta

Intervista Rifat Audeh, in Italia fino al 26 novembre, racconta il suo documentario sul massacro del 2010

Pubblicato circa 5 anni faEdizione del 13 novembre 2019

Il prossimo 31 maggio saranno trascorsi dieci anni dal massacro della Mavi Marmara, la nave turca della Freedom Flotilla diretta verso Gaza, appena uscita dalla prima brutale operazione militare israeliana. A un anno dalla fine di Piombo Fuso, decine di attivisti da tutto il mondo prendono il mare per rompere, dall’acqua, l’assedio israeliano e portare tonnellate di aiuti umanitari. Non arriveranno mai.
A interrompere quel viaggio sono le squadre speciali dell’esercito israeliano che in piena notte assaltano la Mavi Marmara in acque internazionali. Un bilancio pesantissimo: dieci attivisti uccisi, decine i feriti. Ma quel massacro non è avvenuto «al buio». A riprenderlo ci sono giornalisti, attivisti con le loro telecamere. E internet: nonostante i tentativi di Tel Aviv di impedire le comunicazioni con il mondo, un sistema di emergenza continua a funzionare mandando il massacro in diretta.
Ne abbiamo parlato con Rifat Audeh, giornalista e regista di origine palestinese, nel 2010 a bordo della Mavi Marmara. Due anni fa è uscito il film The Truth: Lost at Sea, 50 minuti premiati in diversi festival in giro per il mondo. Audeh è in Italia dal 10 novembre per un tour che si concluderà il 26: oggi e domani sarà a Torino, per poi spostarsi a Venezia, Bologna, Roma e Napoli (il programma completo su ulaia.org/new).

Il suo lavoro è un’inchiesta che prova un’enorme violazione dei diritti umani e del diritto internazionale.
Altre persone me lo hanno detto in alcuni festival, come critica alla mia opera: dicono che non è affatto artistico. Lo ammetto: sono colpevole. Non volevo fare arte ma documentare i fatti e informare le persone che non li conoscevano. Può essere descritto come un lungo reportage, un lavoro sul campo.

Quando è salito a bordo della Mavi Marmara aveva già deciso di girare un film?
Volevo produrre un film fin dall’inizio, per questo avevo la telecamera con me. Ma il tema inizialmente era molto diverso. Ero convinto che avremmo raggiunto Gaza e nella mia testa mi immaginavo già la scena finale: Gaza che ci accoglie al porto. Dopo l’attacco il film ha preso in autonomia la sua via. È diventato l’esposizione di quanto accaduto e la denuncia della propaganda che ne è seguita.

L’elemento più potente della narrazione è il contrasto tra la prima parte e la seconda: l’entusiasmo di persone da ogni parte del mondo per il viaggio verso Gaza e la violenza incomprensibile delle forze speciali israeliane.
Mostrare questo contrasto è stata una scelta deliberata, l’abisso tra i nostri sentimenti: la felicità e l’entusiasmo, la nostra innocenza, la convinzione che saremmo arrivati a Gaza e poi la violenza. Nella prima parte la musica riflette felicità, il viversi come una grande famiglia. Nella seconda parte la musica cambia, cambiano i colori: l’attacco è in corso.

Ha parlato del film con i sopravvissuti?
Con alcuni di loro sono in costante contatto, dall’America, l’Indonesia, la Turchia, la Giordania. Chi lo ha visto ne è stato felice perché ha mostrato cose che all’epoca non aveva colto. Il film racconta aspetti, punti di vista, che non tutti i passeggeri hanno avuto l’occasione di vivere in quelle ore.

Nonostante le prove ci siano e siano più che visibili, Israele non è stato mai punito per il suo crimine. A che serve allora farci un film?
Finora Israele non è stato punito, ma non possiamo perdere la speranza. Noi vittime stiamo procedendo sul piano legale. Alla Corte penale internazionale è in corso una lunga vicenda giudiziaria, il prossimo 2 dicembre il procuratore dovrà rispondere della sua mancata intenzione di procedere contro Israele. Altri casi sono aperti contro singoli funzionari israeliani, in Sudafrica rischiano di essere arrestati. Le vie da percorrere sono numerose.

«The Truth: Lost at Sea» mostra il funzionamento della strategia israeliana per fermare la Flotilla: un piano militare prima della partenza già pronto sul tavolo e poi la criminalizzazione delle vittime. Le immagini da lei girate però rendono plastica, concreta, quella finzione.
L’immagine è lo strumento più potente per smontare la narrazione israeliana. In un mondo in cui l’attenzione dedicata all’informazione è superficiale, dove il flusso di notizie è massiccio e la pigrizia fa passare da un sito all’altro senza capire, un film può ancora accendere la necessaria presa di coscienza che fa agire e provocare un cambiamento reale.

Il film è stato visto in Israele o proiettato in festival israeliani?
No, non è stato mostrato.

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