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La materia pulsante della teoria politica

La materia pulsante della teoria politicaHannah Arendt

Scaffale Il libro «Per un’etica della responsabilità» di Hannah Arendt, edito da Mimesis, raccoglie le lezioni della filosofa tedesca a Berkeley, California, nel 1955

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 13 maggio 2017

Le lezioni che Hannah Arendt è chiamata a svolgere come visiting professor presso il Berkeley College dell’Università della California nel semestre primaverile del 1955, sono una miniera preziosa per chiunque voglia approfondire quel nesso tra esercizio del pensiero e filosofia politica che rende l’analisi arendtiana un prezioso scandaglio dello spazio politico contemporaneo e delle forme che in esso assumono le teorie dell’azione sociale e politica. Ora pubblicate con il titolo Per un’etica della responsabilità. Lezioni di teoria politica (Mimesis, pp. 150, euro 14), come giustamente rileva la curatrice del volume, Maria Teresa Pansera, parte rilevante del significato e del loro valore è connesso specificatamente alla loro collocazione temporale, poiché esse si situano esattamente a metà strada tra Le origini del totalitarismo (1951) e Vita activa (1958), gettando un fascio di luce sia sulla fase di riflessione seguita al primo volume che su quella di gestazione del secondo. Alla teorica della politica interessa, attraverso queste lezioni, non soltanto dare conto del ruolo che la riflessione filosofica e concettuale riveste nell’elaborazione e nello sviluppo del pensiero politico moderno, ma soprattutto evidenziarne gli elementi ancora decisivi per comprenderne il ruolo nel contesto contemporaneo e dunque per pensare una fenomenologia politologica e critica dell’attualità.

Arendt è animata da un interesse storico-ermeneutico potentissimo riguardo ai fenomeni politici e alle loro degenerazioni e già nella sua meticolosa disamina del totalitarismo il suo approccio «sagittale» al recente passato(la «freccia scagliata al cuore del presente» di Foucault), all’evento totalitario e alle forme del suo accadere, rivela quanto poco l’appassioni l’intento fenomenologico-descrittivo rispetto all’urgenza ermeneutico-critica che la induce a intraprendere una riflessione filosofica intorno ai regimi che hanno condotto ad Auschwitz e a Kolyma. La diagnosi del tempo storico appena trascorso va delineandosi in queste lezioni come un’«ontologia del totalitarismo» nel senso in cui Foucault contrappone le due grandi tradizioni critiche fondate da Kant, quella epistemologicadell’«analitica della verità» a quella ermeneutica di «un’ontologia del presente», poiché il totalitarismo viene qui assunto come evento storico e filosofico che evidenzia la disintegrazione dei rapporti tradizionali tra vita e potere, tra esistenza e politica, nonché come potenzialità attualizzata di modificazione irreversibile e distruzione del mondo reale.

In questi appunti per le sue lezioni di teoria politica Arendt ingaggia un corpo a corpo con la tradizione del pensiero politico classico che la porta a confrontarsi con quelli che chiama «gli autori» per distinguerli dai «commentatori», poiché l’autorialità di Machiavelli, Hobbes, Spinoza, Locke, Montesquieu, Rousseau, Kant, Tocqueville, Marx consiste nell’aver «contribuito alla definizione del mondo in cui viviamo», avendolo arricchito attraverso le proprie parole, rispondendo «puntualmente alle nuove e decisive esperienze» del tempo in cui hanno vissuto, poiché «gli autori sono auctores, che aggiungono qualcosa al mondo».  Così più che alle relazioni e alle influenze reciproche tra autori, ingredienti di una storia delle idee o «dello spirito», le interessa come ognuno di essi ha interpretato e cosa ha pensato della Storia, qui intesa come «conditio sine qua non per la scienza politica», nell’atto stesso di confrontarsi con il mondo reale nel quale si è trovato a vivere e a partire dal quale ha elaborato la propria visione. Arendt stessa, in tal senso, si situa a pieno titolo all’interno della schiera degli autori e dei creatori di teoria politica perché tanta parte della sua vita è stata dedicata alla comprensione del più imponente e distruttivo fenomeno del proprio tempo storico, il totalitarismo come humus del male estremo che ha indelebilmente segnato il Novecento.

Ecco allora che se la Storia viene intesa come materia viva e cuore pulsante dell’elaborazione teorica di ogni concezione politica («lo scrittore politico ama il mondo per il mondo, il mondo umano»), è pur vero che per Arendt la teoria politica si posiziona proprio al crocevia «tra la storia e la filosofia», poiché «le sue esperienze sono tutte storiche, ma la sua terminologia è quella che a suo tempo fu coniata dalla filosofia». Pertanto è possibile ricostruire il vocabolario (e di conseguenza la grammatica) delle dottrine politiche che hanno fornito gli strumenti interpretativi della storia e del suo farsi associando autori a concetti. Ciascuno di essi ha introdotto almeno una parola chiave che corrisponde alla categoria usata in prevalenza per comprendere il proprio tempo, contribuendo così attivamente alla costruzione del mondo che descrive («il vero autore [accresce] il vero mondo … egli è parte integrante della storia»). Machiavelli, per esempio, colui che fonda l’autonomia della sfera politica, osservando Firenze, prima città-stato dell’età moderna, introduce il concetto di Stato e il tema della «fondazione del corpo politico» poiché estende la categoria sino all’Italia come Stato-nazione; Hobbes ha invece a cuore «non il potere ma i processi di potere, il ‘potere dopo il potere’»; Spinoza, poi, difende la libertà filosofica e, come Locke, concepisce la proprietà come «l’incontro tra il lavoro umano e le cose» istituendo un legame tra produzione e proprietà.

Fondamentale è inoltre il confronto tra Hobbes e Rousseau intorno al tema cruciale del contratto sociale; mentre a Montesquieu preme comprendere «i principi e le condizioni su cui si fonda» l’azione umana che «muove il corpo politico» modellando le diverse forme di governo; per Rousseau invece conta soprattutto la dimensione sociale della natura umana al punto che se la principale facoltà dei viventi è la volontà, la loro costituzione antropologica è politica. Kant poi pone con forza la tematica dell’agire come il nesso «tra legge e libertà»; chi agisce è un legislatore che appartiene ad un «corpo politico»; Tocqueville, invece, insisterà sull’uguaglianza, ma bisognerà attendere Marx perché essa venga concepita come «una nuova gerarchia delle attività umane». Se con Hegel poi la teoria politica si tradurrà in «nuova filosofia della storia», sarà proprio Marx invece a concepire la centralità del concetto di «lavoro» e a elaborare la categoria antropologica di animal laborans.

Il confronto teorico ed epistemologico con ciascun autore rilevante della tradizione della scienza politica occidentale è in queste lezioni approfondito, preciso e puntuale, e infatti troviamo qui in nuce molte delle questioni (spazio pubblico e sfera privata, il lavoro, l’opera, l’azione, la disfatta dell’homo faber e la vittoria dell’animal laborans) che impegneranno Arendt in Vita activa, il testo in cui l’interrogazione sulla condizione umana nell’età presente si fa più radicale. In questi appunti cerca appigli e punti di sostegno concettuali che sorreggano il suo sforzo di sintetizzare svolte, rotture ed evoluzioni della storia del pensiero filosofico-politico affinché quel passato restituisca senso al mondo contemporaneo, al suo presente storico, orizzonte di processi politici traumatici e senza precedenti.

È il «filo spezzato della tradizione» il sottotesto che Arendt legge in filigrana a questa rassegna di temi e figure delle teorie politico-filosofiche della modernità, giacché se ogni visione teoretico-politica implica de facto un cambiamento di paradigma, una modificazione profonda della prospettiva da cui la storia viene osservata, e conseguentemente delle categorie che occorrono per leggerla, la rottura definitiva con la tradizione avviene quando la tanatopolitica del totalitarismo sterminazionista, ribaltando la massima della «sacralità della vita» sintetizzata nel principio religioso, legale e morale «non uccidere», consente e ordina l’esatto contrario: «uccidi».

Non per caso è dedicata a Kant, alla sua visione della dignità umana come nucleo propulsore della ragion pratica, l’ultima lezione di questa preziosa raccolta, poiché sappiamo che Arendt tornerà, dopo il processo Eichmann, proprio alla Terza critica kantiana per reperire nella sua teoria del giudizio, nella sua concezione del senso comune come luogo della socievolezza e della comunicazione tra umani, le risposte al dilemma morale circa la «responsabilità personale sotto la dittatura». E sino alla fine della sua ricerca saranno proprio Kant e Socrate (a testimonianza che spesso l’ontologia del presente cammina sulle stampelle del passato) ad accompagnarla nella messa a punto di uno dei concetti-chiave della sua teoria politica, quello che individua nell’attività del pensiero (la «dualità del due-in-uno», «il dialogo di sé con se stesso») l’unico antidoto alla cieca violenza del potere assoluto che Hannah Arendt aveva visto dispiegarsi nei totalitarismi novecenteschi sino alla sua massima capacità di annientamento. Cosa che fa di lei non solo una filosofa o una teorica della politica, ma un’autrice che, proprio come quelli da lei elencati, ha arricchito il mondo con i propri concetti e le proprie parole.

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