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La materia non è bruta

La materia non è brutaEtain Addey

Intervista Del vivere in campagna: incontro con Etain Addey

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 28 aprile 2018

La natura non è morta, anche se non sta troppo bene, ma al di là dell’evidenza ecologica questa constatazione può voler dire molto di più: la natura è viva, e partecipa delle qualità del vivente, coscienza, intelligenza, sensibilità. La ricerca scientifica, nelle sue espressioni non fossilizzate, inizia a considerare l’universo intero non più come un grande agglomerato meccanismo di materia inerte, ma come un organismo vivente. È un cambio di paradigma di portata paragonabile al passaggio dalla Terra piatta a quella tonda, una evoluzione probabilmente indispensabile per mutare sostanzialmente i rapporti tra l’uomo cosiddetto sapiens e gli altri abitanti del pianeta, nonché col pianeta stesso. Da parassiti che alla lunga uccidono l’ospite a simbionti che collaborano al suo benessere.
Come questa nuova/antica visione del mondo può trasformare la vita quotidiana di ciascuno lo racconta Etain Addey in Una gioia silenziosa. I diari di Pratale, racconti di una vita diversa (2004, Ellin Selae ed.), Acque profonde – abbracciare la vita (2009, Fiori Gialli ed.) e La vita della giumenta bianca. Il mondo incantato e il paradosso della sobrietà (2015, Magi ed.).
Inglese di nascita, Etain Addey da 50 anni vive in Italia e dal 1980 nella campagna umbra presso Gubbio, in un podere, Pratale, che ospita pecore, cavalli, asini, cani, gatti, galline, olivi, querce e spesso scrittori, filosofi, artisti, reading e incontri del Sentiero Bioregionale.
Come sei arrivata in Italia?
Sono nata in campagna nel Wiltshire, mio padre era professore di scuola e dopo la guerra ha trovato lavoro come tutore del figlio di un contadino. Il podere era mandato avanti da prigionieri di guerra italiani, che non venivano rimandati a casa finché non tornavano i nostri uomini, perché se no chi mandava avanti il podere? Mia madre diceva che era gente molto strana (ride). Quando le mucche si sono ammalate di tubercolosi mia madre ha deciso di tornare a Londra e mio padre l’ha seguita. Io avevo 11 mesi. Sono andata all’università a Londra per studiare filosofia e francese ma la filosofia negli anni 60 era così arida, non aveva niente a che fare con questo mondo, così ho pensato di andarmene. Sono arrivata a Roma nel 1968, avevo 20 anni e una innocenza politica quasi totale, ho imparato molte cose nell’ambiente universitario. Non ho partecipato alle occupazioni ma andavo alle manifestazioni. Parlavo abbastanza italiano. Il primo lavoro che ho trovato, dopo aver venduto quadri a piazza Navona, è stato con Raf Vallone. Voleva tradurre in italiano Coriolano di Shakespeare, e io avrei dovuto spiegargli il linguaggio elisabettiano. Mi viene da ridere, avevo 20 anni! Avevo studiato letteratura ma insomma…di giorno lavoravamo alla traduzione poi la sera si andava a teatro dove Raf Vallone faceva le prove.
L’anno seguente ho trovato lavoro in una multinazionale farmaceutica come segretaria di direzione e lì sono rimasta per 10 anni. Piano piano mi sono accorta della totale mancanza di etica e della corruzione di quell’ambiente, e allora ho pensato di andare a coltivarmi il cibo da sola.
Cosa ti ha portato in Umbria?
Ho cominciato a cercare un posto nella campagna umbra perché querce, aceri sono alberi che mi sono familiari, ricordano la campagna inglese. Ho trovato questo pezzo di terra a Valdichiascio quando ancora la gente scappava da questi posti, e quindi l’ho pagato pochissimo. Talmente poco che gli ho dato qualcosa in più perché mi sembrava quasi un reato visto che erano stati così accoglienti e gentili. Martino – il mio compagno – è arrivato qui l’anno dopo. Aveva deciso prima di me di fare questa vita, ma ci siamo conosciuti qui, veniva dalla Svizzera. Quando ha detto ai suoi genitori voglio fare agricoltura gli hanno detto vai al collegio di agraria e lui no, non voglio fare l’imprenditore agricolo, voglio fare il contadino, e se ne è andato in giro, in Egitto, in Israele, è stato anche al podere di John Seymour che ha scritto Il Grande Libro dell’Autosufficienza, per tanti anni per noi è stata come una Bibbia.
Ho comprato questo posto nel 1975 ma ci sono venuta a vivere nel 1980, avevo una figlia da seguire. A quell’epoca c’era ancora una civiltà contadina, avevamo dei vicini di casa che facevano tutto, erano veramente autosufficienti, sono stati molto delicati nell’insegnarci, noi passavamo sulla strada e c’erano Rosa e Antonio giù nel campo che ci gridavano «oggi piantiamo le fave!» per dirci è il momento di piantare le fave. È importante in campagna trovare chi ti sa dire come è quella campagna. Non è che da un libro puoi sapere come è Valdichiascio. Per saperlo lo devi chiedere a quelli di Valdichiascio. È stato un grosso insegnamento. Nei primi anni non avevo molto tempo per scrivere né per leggere, avevo sempre da fare, poi abbiamo fatto dei figli.
Camilla è andata a scuola a 10 anni, gli altri due hanno imparato in casa fino alla maturità e poi sono andati all’università. In Inghilterra il movimento per l’alternativa, per la scuola in famiglia, è iniziato con 8 genitori nel 1972 e adesso è praticato da molte migliaia di persone. Se non credi nella società dei consumi perchè mandare i figli a scuola, ogni società si riproduce con la scuola. Quando Camilla è andata a fare gli ultimi mesi della quinta, e a scuola sono arrivati a Cristoforo Colombo, mi sono detta noi a casa abbiamo già letto Alce Nero e vari lavori sui nativi, i neri e i bianchi poveri americani, quindi ora si può anche parlare di Cristoforo Colombo, ma mi sarebbe dispiaciuto avere un figlio che avesse imparato per prima cosa Cristoforo Colombo.
Come è cambiato negli anni Pratale?
In questo momento siamo solo in due ma c’è una serie di persone che sentono questa come la loro casa, e che di quando in quando ritornano. Dopo un po’ di anni che lavori, che zappi, che innaffi, che ti preoccupi diventa importante riflettere su questa vita, su questa scelta che all’inizio è stata intuitiva. Abbiamo avuto come retroterra Thoreau, Gary Snyder, Wendell Berry – un poeta e scrittore americano del Kentucky, un ex insegnante di università che è tornato alla terra – e tutta una serie di persone che per noi sono state di grande ispirazione, ma quando ho alzato la testa dalla terra mi sono accorta che in Italia mancava una letteratura su questa esperienza. Uno dei motivi per cui ho cominciato a scrivere in italiano era perché mi sembrava che in Italia ci fosse tanta gente in campagna che si sentiva emarginata, siamo i poveretti che non sono potuti andare a vivere a Roma o Perugia… in città c’è tanta gente che è convinta di stare bene ma sta malissimo. È una questione mentale, sono convinti che la vita in campagna non abbia prestigio, è un lavoro sporco, noioso, e difficile, e quindi non vedono il divertimento e la bellezza di questa vita e l’indipendenza che ti offre. Qui ci sentiamo in una botte di ferro, l’orto c’è sempre, le galline ci sono sempre, un anno è eccezionale per le olive e magari la vendemmia non va bene ma tutto sommato si mangerà, meno di questo e più di quell’ altro.
Vivere in campagna ti fa scoprire che il mondo è un po’ diverso da quello che generalmente si pensa...
Sono nata in un podere ma poi sono cresciuta in un sobborgo di Londra in una famiglia mediamente benestante, per cui ho potuto viaggiare, studiare, ma non avevo un mio luogo, i sobborghi di Londra non sono luoghi riconoscibili, da bambina sognavo un ruscello in fondo al giardino, adesso ce l’ho.
Un giorno io e Martino andavamo a piedi verso la strada statale e si è fermata una macchina di Roma, il tipo tira giù il finestrino e fa: «siete del posto?». In un lampo abbiamo fatto un percorso mentale e abbiamo detto «sì». Quando hai a che fare giorno per giorno con un luogo, gli animali, la vegetazione, tu diventi del posto.
Il riconoscimento da parte di chi è del posto avviene non perché sei riconosciuto dagli altri, dai locali, ma perché ti sei alzato per mungere queste pecore e potare questi alberi, è una cosa strana…
Mio figlio Beniamino un giorno mi ha scaricato sul computer una enciclopedia di filosofia in 10 volumi, e quando li leggo 10 volumi! Approfittando di un giorno di pioggia sono andata a scorrere questa enciclopedia e ho trovato un articolo sul panpsichismo, ah! c’è una scuola di pensiero che sostiene quello che penso io – fa sempre piacere, non sei solo – e l’articolo diceva che benché questa linea di pensiero possa sembrare ridicola oggi, è un pensiero molto antico e diffuso tra i popoli indigeni. Nelle sue varie versioni è l’idea che la materia tutta è presente a se stessa, è viva, non stiamo parlando di tavoli con personalità o sedie con spiriti particolari, ma di una interiorità che precede in un certo senso il mondo della materia.
L’articolo citava David Skrbina, un filosofo americano che ha scritto Panpsychism in the West. L’ho letto, era molto maschile e bianco, ma tra l’altro scrive che c’è una nuova ondata di filosofi panpsichisti e tra i più interessanti cita l’australiana Freya Mathews.
Per tanti anni ho pensato prima o poi uscirà fuori una donna occidentale che non considererà il mondo fisico una illusione, come in Oriente, o il male, come in Occidente. Ho acquistato due libri che sono il suo manifesto filosofico, Per amore della materia, e Riabitare la realtà. Nel primo argomenta in modo molto razionale che l’universo è uno, ma vediamo le diecimila cose, e qual’è il rapporto tra l’uno e la molteplicità? Lei conclude che inevitabilmente è un rapporto di comunicazione.
Non siamo isole autosufficienti, il mondo è tutto collegato, ci sono conversazioni che avvengono in continuazione. Il pensiero della modernità fa finta di non avere una metafisica di base ma invece ce l’ha, ed è la separazione mente materia, sulla quale si basa tutto il nostro pensare. Siamo abituati a credere che il locus della mente siamo solo noi, e che tutto il resto è a nostra disposizione. Un altro mondo è impossibile senza che sia rimessa in discussione questa divisione tra mente e materia.
Il cristianesimo ha molte belle cose ma anche una grande colpa, ha aperto la strada a un modo di guardare al mondo che mette a nostra disposizione gli animali, le piante, la Terra stessa senza limiti. Il bioregionalismo dice tu devi vivere in questa zona che chiami casa ma devono vivere anche gli altri esseri e deve sopravvivere il fiume e deve sopravvivere la montagna, e quindi devi stare attento a come gestisci questo posto. Questa idea di Freya, questo suo indagare la natura della materia è un passo radicale, enorme rispetto a tutto l’ambientalismo e anche al bioregionalismo perché per lei il luogo è una entità primaria, ti contiene e ti fa sopravvivere. Come fonti di ispirazione ha il taoismo da una parte e la cultura degli aborigeni australiani dall’altra, con la loro idea di avere cura del territorio, perché il territorio ha cura di loro.
«Le Vie dei canti» di Bruce Chatwin…
C’è una bellissima storia nell’appendice di uno di questi libri in cui lei cita Frantz Hugland, un ragazzo olandese che a 20 anni è andato in Australia, si è accodato a un gruppo di aborigeni che facevano più o meno la vita tradizionale e a distanza di 40 anni è ora un cleverman, uno sciamano, e spiega cosa è per gli aborigeni «le-an», un modo di «essere in ascolto». Dice: una mattina mi alzo e invece di sedermi vicino al fuoco e bere un the me ne vado in giro, ma dove sto andando? Non lo so comunque ora mi trovo vicino al mare e mi fanno male i piedi per tutte queste piccole conchiglie, e poi si gira e trova una tartaruga di mare incastrata in un buco. Ah! ora cerco di tirarti fuori ma non mi mordere perché qui non ho equilibrio e mi fanno male i piedi. Cerca di prendere la tartaruga ma questa si spaventa, si agita e la pozzanghera si riempie di sabbia. Aspetta 10 minuti poi le dice ora mi metto dietro e 1 2 3 cerco di tirarti fuori, tu fai uno sforzo… e la ributta in mare.
La tartaruga scompare tra le onde e poi riappare, gli viene vicino, tira fuori la testa, lo guarda e se ne va. Dopo 5 minuti torna al fuoco e i piedi non gli fanno più male. Questo è «le-an», non so perché devo andare lì ma un motivo c’è perché non è tutta una storia mia, ci sono altre storie nel mondo, se sei in ascolto sei coinvolto. Se fossimo liberi di seguire l’istinto in continuazione, di ascoltare, la nostra vita sarebbe piena di questi incontri e di questi aiuti reciproci.
Riabitare la realtà inzia con Freya che torna dove viveva da bambina nella periferia di Melbourne, dove giocava in un torrente vicino a casa, ci andava a cavallo del suo pony ed era pieno di aironi. Quando ci torna a 55 anni dove c’era casa sua c’è un cementificio, vietato l’ingresso. Entra attraverso un buco del recinto e trova il torrente pieno di cemento e roba chimica, un solo albero rimasto del boschetto e sopra l’albero un airone. E scrive: «vorrei cadere per terra e baciare la terra dove questo albero resiste e questo airone, questa sentinella della mia infanzia, è l’unico che non ha abbandonato il suo luogo». Mi sono permessa di stare male per un mese, per leggere questi due libri di Freya, con Martino che apriva la porta e mi diceva ti sei fatta venire la sciatica per poter leggere. Quando mi sono rialzata il mondo mi sembrava completamente diverso, sembrava contenermi in un modo che prima non mi era così chiaro, un luogo dove un dialogo continuo è possibile, allora ho pensato devo mandare una e-mail a questa donna per ringraziarla. Mando una e-mail alla sua università pensando questo è un messaggio in bottiglia, non mi risponderà. Tre giorni dopo arriva una e-mail di Freya. Sono uscita urlando «mi ha risposto Freya Mathews» ma in quel momento sento tutte le galline che strillano allora corro pensando questa è la volpe, invece era un grandissimo airone bianco che volava sul cortile. Sono 35/40 anni che abito qui, e non ho mai visto né prima né dopo un altro airone. È proprio come dice Freya, se ti rivolgi al mondo il mondo ti riponde, noi abbiamo solo il linguaggio ma il mondo ha corpi, situazioni, avvenimenti. Il gruppo di Sentiero Bioregionale ha tradotto questo libro, un capitolo a testa, e senza nessuno sforzo si è presentata una casa editrice e un dottorando in filosofia di Venezia, Stefano Sangiorgio, che ha detto sto andando in Australia… e allora vai a trovare Freya… Questi due libri sono per me una risposta a tante persone che si sentono chiuse in un mondo meccanicista che non risponde a quello che noi sentiamo, a quello che molte persone percepiscono, tanto più se vivono in campagna.
Hai scritto tre libri..
Sì sono storie di campagna raccontatemi da contadini, o dal pastore sardo padre di Beniamino, poi cose che ci sono successe, errori che abbiamo commesso, l’arrivo dei carabinieri tanti anni fa, all’ epoca per loro o eri brigatista o eri pieno di droga, un motivo ci doveva essere se venivi a vivere in un rudere.
Negli anni 60 eri una hippie?
Certo e sono ancora una vecchia hippie, il movimento hippie non è stato così effimero come tanti sostengono, e così il ’68 da dove sono usciti tutti questi movimenti ambientalisti, femministi etc. etc. Io vengo da una famiglia pacifista quacchera e penso comunque che le cose che sono successe negli anni 60 e 70 sono fiorite, siamo pieni di rughe e con i capelli bianchi ma cavolo il lavoro lo abbiamo fatto.
Qui sono venuti Gary Snyder, Jim Koller, Gianni Milano…
Quando c’era Gary Snyder per me è stato un sogno, leggevo i suoi libri da tanti anni, per me è una grossa fonte di ispirazione. Quando è stato qui mia figlia più grande mi ha detto mamma stai calma sembri una groupie. Ok ma sono troppo onorata da questa presenza perché è un grande, non è solo un poeta ma un grande pensatore, ha allargato lo spazio e il tempo per tutti noi.
L’incontro con Giuseppe Moretti e l’idea bioregionale ci ha offerto un modo più strutturato di pensare a questa vita. In campagna nessuno ti comanda, mangi bene, bevi acqua fresca dalla fonte, respiri aria buona e sei costantemente circondato da bellezza, che secondo me è una cosa importante nella vita.

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