«La manutenzione? Il 30% del fatturato. Ma la sicurezza non ha costo»
«Riparare l’impianto idraulico frenante non è costoso però la cabinovia si ferma per due giorni». Parlano Valeria Ghezzi, presidente dell’Anief, l’ingegner Dino Pignatelli, amministratore della funivia del Gran Sasso, e il vetturista Vito Ciccarella
«Riparare l’impianto idraulico frenante non è costoso però la cabinovia si ferma per due giorni». Parlano Valeria Ghezzi, presidente dell’Anief, l’ingegner Dino Pignatelli, amministratore della funivia del Gran Sasso, e il vetturista Vito Ciccarella
«Mi sembra impossibile che possa essersi rotta la fune traente. In 35 anni che sto nel settore non ho mai sentito parlare di una traente che si sfili o si spezzi così, accidentalmente, con l’usura. Mai sentito, e non solo per quanto riguarda l’Italia». L’ingegner Dino Pignatelli, amministratore della funivia del Gran Sasso, è un progettista di impianti a fune, al lavoro proprio in questi giorni sui controlli di sicurezza dell’impianto abruzzese.
La cabinovia che da Fonte Cerreto porta alla stazione di Campo Imperatore è diversa da quella di Stresa perché raddoppia il numero di funi portanti. L’impianto di Mottarone «è po’ vecchiotto», dice, ma all’ingegnere proprio non sembra possibile che la fune trainante possa essersi spezzata: «Credo invece che si sia sfilata, non so bene perché: magari perché si è rotta la testa fusa o le placche che la tengono fissa, a seconda di come è fatto l’impianto». Ma neppure un fulmine, secondo lui, può essere la causa del primo incidente. «Il fulmine può bruciare qualche filo o al massimo qualche trefolo, ma pure così la fune tiene. Anche perché dopo ogni temporale tutte le funi e le parti metalliche vanno controllate, almeno a vista».
E della serietà dell’ingegnere Enrico Perocchio, il direttore d’esercizio della cabinovia di Stresa arrestato, Pignatelli è fermamente convinto: «Lo conosco, è una persona correttissima, un professionista molto preparato, non posso credere che abbia consentito l’esercizio in quelle condizioni. Purtroppo la responsabilità oggettiva è la sua. In ogni caso, è una mancanza grave, non si può esercitare in quelle condizioni».
Perché la seconda causa della tragedia è, come tutti sappiamo ormai, il sistema frenante manomesso tramite due «forchettoni» che si usano per divaricare le ganasce dei freni durante la manutenzione, quando la funivia è fuori esercizio. La manomissione però non può aver avuto alcuna conseguenza sulla fune trainante, assicurano tutti gli esperti sentiti dal manifesto. Nelle teleferiche «ci sono i freni di servizio che agiscono sulle pulegge e il freno di emergenza che agisce sulla portante. In posizione normale, i freni stanno in “strisciamento” – spiega ancora l’ingegnere -. Se la trazione della fune cessa, due sensori fanno scattare i freni. Nel caso non dovessero funzionare, all’interno della cabina c’è un operatore che può azionarli manualmente. A Stresa però mi sembra che non ci fosse neppure l’agente di cabina». D’altronde con i freni manomessi sarebbe stato superfluo.
Cosa può aver richiesto l’intervento con i “forchettoni”? «Per esempio che l’impianto frenante perdesse olio. Perciò per evitare i continui blocchi, qualcuno, in modo assolutamente non corretto, ha utilizzato il forchettone per tenere aperte le ganasce dei freni», ipotizza Vito Ciccarella, vetturista nell’impianto del Gran Sasso. Ma quanto sarebbe costato al gestore dell’impianto riparare un guasto del genere? «Riparare l’impianto idraulico non è costoso – risponde ancora l’ingegner Pignatelli – però bisogna fermare la funivia per uno o due giorni».
«Non esiste il calcolo del costo per fare i controlli: nel nostro settore se c’è da fare una riparazione o la fai o non apri. Le posso assicurare che nessun gestore serio avrebbe mai aperto in quelle condizioni. Peraltro dal 24 di aprile c’è stato tutto il tempo di programmare interventi. Cosa intendevano fare a Stresa, andare avanti così tutta la stagione?». Valeria Ghezzi la presidente dell’Anef (Associazione nazionale esercenti funiviari) è quasi arrabbiata. Racconta di essersi battuta per i ristori proprio perché i costi di manutenzione degli impianti di risalita «sono enormi». «La maggior parte di noi lavora cinque mesi l’anno ma un terzo del nostro personale è a tempo indeterminato, lavora 12 mesi perché da maggio a novembre ci sono i lavori di manutenzione».
«Quando l’impianto è in funzione si fanno controlli quotidiani, settimanali e mensili, come da legge. Quando è fermo ci sono i check annuali, quinquennali e decennali, cioè quei lavori che richiedono lo smontaggio di tutte le parti e tempi lunghi: sono controlli “non distruttivi”, una specie di Tac delle parti metalliche che sulle funi si effettua ogni anno». Ma tutto questo «non è discrezionale, è dettato da norme precise», scandisce la presidente dell’Anief. La normativa è triplice: del Mit, europea e del costruttore che tramite un apposito manuale stabilisce quali controlli devono essere fatti e con quale periodicità. «E l’unico criterio utile è rispettare le leggi». Il costo totale della manutenzione, considerando anche la manodopera «si aggira tra il 30 e il 40% del fatturato». Ma «non è una novità – conclude Ghezzi – sta nella natura del nostro lavoro».
Meno duro è il giudizio del vetturista Ciaccarella: «Il problema dei gestori – dice con un fil di voce – è che se hai pressioni dagli albergatori, dai commercianti, e tutti vogliono che l’impianto giri perché devono guadagnare, non è semplice…».
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