La manta, il diavolo del mare
Il racconto Santa Cesarea: un avvistamento drammatico e travolgente
Il racconto Santa Cesarea: un avvistamento drammatico e travolgente
Percorrevamo con Angela una linea retta di due miglia e mezza nautiche, a nord, per giungere sotto gli strapiombi di Santa Cesarea che s’immergono in fondali di oltre cinquanta metri.
Angela, un legno per la piccola pesca sotto costa, aveva un motore fuoribordo di bassa potenza che permetteva di prendere il mare nelle calme di giugno. In quei fondali guizza la ricciola, da stanare con la pesca a traina, che fra primavera ed estate si avvicina ai costoni rocciosi per la riproduzione. Mai che ci capitasse l’esemplare davvero grosso!
A bordo finivano pezzature sui quattro-cinque chili, dalle carni sode e delicate però. A meno che non se ne catturasse più di una, da destinare alle trattorie della zona, la ricciola ce la gustavamo in umido insaporendola coi capperi di Castro.
Al rientro prima del calare del giorno, col pescato o no, riparavamo nella rada di Porto Miggiano sovrastata dal pianoro a terrazza spalancato nel blu marino. Nei pressi di una torre diroccata c’era il chiosco-bar dell’Avamposto, meglio conosciuto come il Baretto, dove inumidivamo le gole con chinotto, ghiaccio e scorza di limone. Costruito e smontato ogni estate, con legni di scarto e fogliame di palma a fare da tetto, la notorietà del Baretto varcò i confini regionali e nazionali, arrivando perfino sulle pagine autorevoli del quotidiano inglese The Guardian. Ma alla fine del primo decennio del Duemila al gestore fu negato il rinnovo della concessione all’esercizio e l’Avamposto non fu più ricostruito. Angela, la barca, aveva quasi la stessa età di Angelo, il suo proprietario: sessant’anni e una vita da pescatore. Andar per mare è una scoperta continua. Angelo e Angela ne avevano viste tante, troppe forse. Eppure, senza spingersi al largo, avvenne qualcosa che sapeva di nuovo, qualcosa mai capitata fino ad allora.
Al cadere del vento, col sole che si abbassa, ce ne tornavamo a traina con l’esca viva di sgombri e cefali alla velocità media di due nodi. A babordo il mare aperto, a dritta gli strapiombi di Santa Cesarea sui quali si staglia palazzo Tamborino che fu casinò nell’immediato dopoguerra. I barconi, che per tutto il giorno trasportano vacanzieri in grotte e anfratti marini, avevano cominciato a diradarsi. A prua e dal lato della vasta distesa, piccole pieghe che correnti del fondale cupo spingevano a pelo d’acqua, di traverso. Pieghe di onda che mentre si livellavano nella superficie compatta andando alla deriva verso costa, di nuovo si componevano dinanzi, a prua.
Dai costoni rocciosi, poco distanti, dove nidificano gli uccelli acquatici, si annunciarono con uno squittio che copriva il ronzio dello scarso fuoribordo alcuni gabbiani. Sorvolando sulle nostre teste, insistenti come mosche, si tuffarono col becco affusolato precisi nel secchio per ghermire il rimasuglio dell’esca da traina. Lo svuotarono all’istante e coi minuzzoli del pesce penzolante, destinato a sfamare i loro piccoli, li perdemmo di vista. Ci restava solo da recuperare le lenze della pesca, infruttuosa, e non appena demmo più giri al motore un getto d’acqua si riversò sulla barca. Un’onda grossa formatasi repentina? Macché. Il getto ci era piovuto da dritta, dalla superficie compatta e liscia che andava a lambire l’alta scogliera da cui avevano preso il volo i gabbiani. Chi diavolo l’aveva buttata quella copiosa secchiata sulla barca? La risposta, immediata e incredibile, era insita nella domanda: l’aveva buttata proprio il diavolo.
Così ci apparve una manta gigante, volgarmente definita «diavolo del mare», che in vena di salti acrobatici fuori dall’acqua nuotava a una dozzina di metri dalla piccolissima Angela. Con la bocca spalancata, la nostra, per la meraviglia, ci rendemmo conto delle sue reali dimensioni negli attimi che restò sospesa in aria: dall’estremità delle pinne pettorali, simili ad ali spiegate con le quali riusciva a librarsi, era larga quanto la lunghezza della barca.
Solo un esemplare oceanico poteva avere tali dimensioni. Che tuttavia nuotava a centocinquanta metri da una costa del Mediterraneo. Appiattita e parallela alla nostra rotta, la manta al terzo salto produsse un’onda così alta che rovesciandosi a cascata sulla barca, e inondandola, ebbe l’effetto di stabilizzarla senza capovolgerla. Angelo a prua tracollò in acqua e nel vortice creatosi scomparve tra i flutti. Per pochi secondi. Riemergendo in superficie, che già si ricomponeva uniforme, afferrò una cima e accostò sotto bordo. Da poppa la barca si abbassava notevolmente, già per l’acqua imbarcata, e aiutatolo riuscì a issarsi. In preda al tremore non articolava neanche una sillaba. Il terrore ci aveva paralizzati. Ma non potevamo restare inerti. La manta inabissatasi non avrebbe tardato a ricomparire, pensavamo, e ci saremmo ritrovati come fantocci in potere di un ciclope. Prova e riprova, il motore non si rimetteva in moto. Puzzo di bruciato e fumo nero certificarono che era fuso. Un vento di nord-est, il grecale, spirando verso terra ci spinse in località «Gli archi».
Imbruniva, della manta non c’era traccia e stremati ormeggiammo avviliti in quel tratto protetto. Lì riparavano altri pescatori e con loro saremmo rientrati, dalla strada litoranea, a Castro alta dove Angelo aveva casa. Fra i gradini intagliati degli Archi, che salivamo, si trovava un punto di ristoro alla buona scavato sul costone. A Pino, il padrone, la prima anima che vedevamo, raccontammo con parole smozzicate e intrise di emozione l’incontro col mostro marino. La nostra versione gli parve forse esagerata, poco credibile, tanto da non prestarle attenzione; tuttavia ci rinfrancò con un cognac, unica bottiglia sulla mensola del localetto.
Angelo si mostrava stremato, moralmente e fisicamente. Non gli era mai successo di cadere in acqua dalla barca. E questo lo mortificava: finito in acqua a causa di un pesce. Già, ma che pesce! Se nel Mediterraneo c’è il santuario dei capodogli (Mar Ligure), i mammiferi acquatici più enormi dei mari insieme con le balenottere azzurre, perché non dovrebbero esserci le mante giganti? Nei giorni che seguirono evitammo di spargere allarmismi, appariva opportuno non impaurire diportisti e bagnanti. Angelo nel mare ci lavorava e cercò di mettere la parola fine su quell’episodio.
Tra di noi si continuo a discutere della manta gigante. Addebitava l’intrusione ai cambiamenti climatici che favorivano il passaggio dalle Colonne d’Ercole (usava il nome mitologico dello Stretto di Gibilterra) di grossi cetacei e di specie mai viste prima. Non del tutto rare tuttavia nell’alto Jonio che va a lambire le coste salentine.
Ci tornava in mente il grande squalo bianco di quasi sette metri che aggirandosi sotto costa era stato catturato al largo di Gallipoli dall’equipaggio di Pompeo e rimorchiato dalla motobarca di undici metri fino alle banchine del porto. Solo quando venne issato con una gru lo squalo apparve in tutta la sua maestosità: aveva la coda impigliata fra i tramagli (robuste reti calate verticalmente) salpati a bordo poco oltre l’isola di Sant’Andrea, a un miglio dal centro storico gallipolino. Una pescata eccezionale, documentata dalla pubblicazione di una cartolina illustrata. Correvano gli anni ’70 e ancora non si erano evidenziati i mutamenti allarmanti del clima: d’estate c’era l’estate, calda e secca; d’inverno c’era l’inverno, freddo e piovoso. Mentre dello squalo bianco di Gallipoli si era avuta ampia divulgazione, della manta gigante nessun accenno. Della sua apparizione esisteva la testimonianza orale solo di noi due: nessun resoconto descrittivo, né una verbalizzazione ufficiale, soprattutto nessuna immagine fotografica da far valere come prova documentale. Ad averla avuta!
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento