La maledizione del «pilota»
Colonne sonore/Musiche avvincenti, scritte per serie tv che non sono andate oltre l’episodio «0» Ripensando a «Bloodmoon», collegato alla saga del «Trono di Spade», o a «Night Rider 2000», riproposizione del telefilm anni Ottanta «Supercar». Occhio al remake di un classico come «Il braccio violento della legge» o all'erotismo di «Cruel Intentions»
Colonne sonore/Musiche avvincenti, scritte per serie tv che non sono andate oltre l’episodio «0» Ripensando a «Bloodmoon», collegato alla saga del «Trono di Spade», o a «Night Rider 2000», riproposizione del telefilm anni Ottanta «Supercar». Occhio al remake di un classico come «Il braccio violento della legge» o all'erotismo di «Cruel Intentions»
Non è così noto agli spettatori il fatto che esiste una lista enorme di serie tv che non sono mai arrivate oltre l’episodio 0 (zero), il così detto «pilota». I motivi sono tanti e vanno dal cambio di gusti da parte dei dirigenti delle reti tv alla più prevedibile cattiva resa di quell’unica puntata che doveva stupire e tutti e invece così evidentemente non è stato. In questo strano universo di titoli che sulla carta erano vincenti, purtroppo finiscono nell’oblio anche i lavori dei vari musicisti con colonne sonore degne di maggior successo. Da qui immagini e suoni in progetti che potevano diventare cult e invece sono morti sul nascere, aborti che possiamo guardare con amore, sbaglio enorme come ci insegna la Teresa di De André in una Rimini felliniana.
DRAGHI E REGINE
Game of Thrones (Il trono di spade) è una delle serie più iconiche degli ultimi anni. Tratto da alcuni libri di grande successo dello scrittore George R. Martin, il serial ha riscritto le regole della narrazione fantasy in televisione, mai così vicina all’immaginario cinematografico come ritmo e temi sessualmente espliciti. Personaggi come Daenerys Targaryen – «Nata dalla tempesta», «Prima del suo nome», «Regina degli Andali, dei Rhoynar e dei Primi Uomini», «Signora dei Sette Regni», «Protettrice del Regno», «Principessa di Roccia del Drago», «Khaleesi del Grande Mare d’Erba», «la Non-bruciata», «Madre dei Draghi», «Regina di Meereen», «Distruttrice di catene» -, sono entrati di prepotenza nella leggenda al pari dei suoi attori, sex symbol e già spinti verso la mecca delle grandi produzioni Hollywood come nel caso di Jason Momoa. Non solo però di soli draghi, sanguinose battaglie e amplessi animaleschi è fatta la serie, ma anche di musica a partire dall’imponente marcia che apre i titoli di testa di ogni episodio, opera magistrale di Ramin Djawadi, autore che era lì lì per spiccare, senza mai davvero creare il capolavoro, con Iron Man, Pacific Rim, Prison Break, Person of Interest e The Strain. Quella de Il trono di spade è infatti una delle sigle più lunghe in circolazione con quasi due minuti di sonoro. La frase iniziale della musica in apertura si ripete per tutto il brano ed è stata creata con l’uso insistente del violoncello. Prezioso l’apporto poi del coro che accompagna la seconda parte della sigla cantato da ben 20 coriste. Tutto perfetto e assolutamente cult che si è ripetuto nell’eccellenza anche musicale dello spin off della serie, ossia House of the Dragon sempre con Ramin Djawadi a curare la colonna sonora.
HBO, la casa produttrice del franchising, è sempre stata ligia alla sua politica di assoluta qualità arrivando ad annunciare molti altri figli di Game of Thrones e prontamente cancellarli. È successo a Empire of Ash, a The Targaryen Conquest, a The Dance of the Dragons e a Flea Bottom, tutti abortiti prima di essere realtà. Diverso il caso di Bloodmoon che invece ha avuto una fugace vita con un pilot effettivamente girato, ma talmente detestato dalla rete da non svilupparlo in una serie tv. Il pilot, girato da S.J. Clarkson (Dexter, Jessica Jones), è stato mandato al macero senza che neppure lo stesso Martin lo potesse prima visionare. Nel cast grandi nomi come Naomi Watts, Josh Whitehouse (Poldark), Tony Regbo (Reign), Ivanno Jeremiah (Humans) e Georgie Henley (Le cronache di Narnia), ma soprattutto le musiche di Ramin Djawadi che avrebbero dovuto accompagnare la serie ma che probabilmente sono state dirottate su House of the Dragon. Cosa che ovviamente non sapremo mai visto che HBO non rilascia dichiarazioni su questo Bloodmoon, un disastro costato 30 milioni di dollari.
UNA TRAMA PERFETTA?
Il braccio violento della legge (The French Connection) è un film del 1971 diretto da William Friedkin, e interpretato da Gene Hackman, Roy Scheider e Fernando Rey. La pellicola riscosse grande successo, ottenendo vari premi internazionali, tra cui cinque Oscar e tre Golden Globe. Nel 1998 l’American Film Institute l’ha inserito al settantesimo posto della classifica dei migliori cento film statunitensi di tutti i tempi. Il braccio violento della legge Nº 2 (The French Connection II) del 1975, diretto da John Frankenheimer, è un seguito certamente non all’altezza dell’originale, girato però con nerbo e grande senso dello spettacolo. Le pellicole affrontano il tema della droga, della polizia violenta con un linguaggio nervoso nelle riprese degli inseguimenti che influenzeranno tutto il cinema mondiale a venire. Grande importanza hanno poi le musiche ad opera di Don Ellis con l’apertura eccezionale del primo capitolo, un pezzo jazz stridente, che fa da contrasto alla colonna sonora del secondo, più cupa con l’uso geniale della chitarra elettrica e del sintetizzatore, una colonna sonora piena di suoni distorti, perfetta per parlare della dipendenza di eroina del suo protagonista, l’immenso Gene Hackman.
Il 12 luglio 1994 esordisce, alle 20:40, direttamente su Rai 2, Il braccio violento della legge 3, presentato da vari settimanali dell’epoca come «inedito per l’Italia e diretto da un solido professionista del film televisivo», questo film vede Ed O’Neill (divo televisivo di recente protagonista di Dutch è molto meglio di papà) nel ruolo che era stato di Gene Hackman. La storia? C’è di tutto. Uso e spaccio di droga. Intrighi internazionali. Attentati tra arabi e israeliani. Rapine a supermercati. Poliziotti che finiscono in ospedale e belle donne che finiscono al cimitero. Ma c’è anche lui: Popeye Doyle, un simpatico ed estroso poliziotto in un perenne rapporti di amore-odio con il proprio capo, che alla fine risolve tutti i casi.
Sembra la trama perfetta per una serie tv e così infatti doveva essere: Popeye Doyle, questo il titolo originale dell’opera, era nato per essere un telefilm sulla scia de Il braccio violento della legge del quale prendeva il protagonista principale. Il pilot, girato nel 1986, ben 9 anni dopo il secondo capitolo della serie, era imparagonabile ai due fratelli più grandi: troppo frenato il versante violenza, troppo annacquato il ritmo, insomma tutto molto televisivo, appunto.
VISIONI CORSARE
Ad occuparsi della colonna sonora stavolta Brad Fiedel, famoso per le sue collaborazioni con il regista James Cameron (Terminator, T2 il giorno del giudizio e True Lies). I fan lo conoscono per l’uso geniale del sintetizzatore e, in genere, per un certo ritmo nelle sue colonne sonore, qualsiasi genere stia affrontando. In questo caso Fiedel non si ispira a Don Ellis, ma mette in scena un approccio molto anni Settanta dal retrogusto funky. La colonna sonora inizia con un ritmo pesante e prosegue con un fantastico riff jazz che riporta alle atmosfere dei polizieschi all black stile Shaft o Cleopatra Jones. Tutto bellissimo anche stavolta sul piano musicale tanto che la colonna sonora del film, nei suoi 70 minuti di tracce, è un acquisto obbligatorio.
Passiamo però ad un altro genere, il teen erotico sentimentale di metà anni Novanta, con lo scandaloso Cruel Intentions (1999) di Roger Kumble. Un cult movie: attori in forma, una storia tratta da Le relazioni pericolose di Pierre-Ambroise-François Choderlos de Laclos, di cui trasferisce l’ambientazione dalla Francia del XVIII secolo a un collegio dell’alta società newyorkese, per non parlare delle musiche di Ed Shearmur, erotiche e maliziose come il film che racconta. Entrato nella leggenda poi il bacio saffico tra Sarah Michelle Gellar, la Buffy del famoso telefilm, e l’impacciata Selma Blair di Hellboy. Senza contare l’uso emotivamente potente di Bitter Sweet Symphony dei Verve nel drammatico finale con gli archi che segnano la fine del redento protagonista Sebastian Valmont. Purtroppo questo film non ebbe un seguito cinematografico ma divenne una vera ossessione per il suo autore.
È sempre il 1999 quando Roger Kumble viene assunto per girare tre episodi di una serie dal titolo Manchester Prep, sviluppo televisivo appunto di Cruel Intentions. Tutto si ferma però quando i produttori della rete vedono il girato e si rifiutano di sovvenzionare una cosa così scandalosa, per lo più programmata in prima serata. Così i tre episodi (The Pilot, Pretty in Plaid, e Disfunction Junction) vengono assemblati per farli diventare un film che esordirà direttamente in home video, Cruel Intentions 2, un’opera improponibile che conta per lo più un cast di attori mediocri e spaesati. Per assurdo il serial, giudicato scandaloso soprattutto per una scena di un orgasmo a cavallo, fu considerato troppo blando per l’uscita in vhs e dvd. Si girarono quindi nuove sequenze di nudo, soprattutto delle gemelle Annie e Alicia Sorell, di baci ovviamente saffici per non deludere i fan e una riscrittura della sceneggiatura per trasformarlo in un prequel del primo film. Un disastro che non risparmia neppure la musica di P.J. Hanke, distratta, banale, mai sul pezzo come lo era quella di Ed Shearmur, con l’idea disagevole di rivisitare la Moonlight Sonata di Beethoven in chiave più rock.
Roger Kumble però non si dà per vinto davanti alle critiche negative. Nel 2015 produce lo spettacolo Off Broadway Cruel Intentions: The ’90s Musical e nel 2016, gira per la terza volta Cruel Intentions usando come unica protagonista la Sarah Michelle Gellar del primo film. I fan stavolta impazziscono e si leggono su internet recensioni come «Ogni vero appassionato lo adorerà! Ha superato le mie aspettative!». La NBC che produce questo pilot di 97 minuti non è dello stesso avviso: la serie non rispetta i canoni di qualità richiesti. Perciò Cruel Intentions, seguito ufficiale di un cult, muore senza essere mai trasmesso da nessuna rete, visione corsara di qualche fortunato spettatore alle preview. La colonna sonora è sempre di Ed Shearmur ma non si sa se sia la stessa dell’originale o composta per l’occasione.
CARTONI
Sailor Moon è uno dei cartoni animati più iconici di sempre, eppure non convinse i distributori statunitensi. Nel 1994 infatti decisero di trasformare sul modello dei Power Ranger, tutta la serie buttando il materiale originale e girando tutto da capo. Così, in un mix tra animazione scadente e cattiva recitazione live, viene sfornato un brutto pilot di 11 minuti, simile come resa ai vecchi cartoni animati di Mr T o di Albertone con Bill Cosby, una roba già vecchia visivamente negli anni Ottanta. Ad essere però ingenuamente accattivante è la colonna sonora che usa come base la classica Moonlight Densetsu che apre la serie giapponese per trasformarla in un delirio pop anni Novanta. Infatti, nella versione statunitense, le ragazze si lanciano, tra i corridoi di una scuola, in un orecchiabile pezzo di rara bruttezza, ma anche così pieno di ritmo da essere pericolosamente orecchiabile. Il trailer del pilot, presentato all’Anime Expo del 1998 generò talmente tanta ilarità tra il pubblico che la rete fu costretta ad abortire il progetto e affidarsi alla serie classica di Sailor Moon.
Dire supereroe, salvo rari casi, vuol dire sfornare un successo al botteghino senza precedenti. La storia della tv però è piena di progetti abortiti e trasformati in non film, pilot che, se si è fortunati, vengono trasmessi a tarda notte su qualche rete coraggiosa.
Così abbiamo avuto un Nick Fury interpretato da David Hassellhoff, la star di Supercar, nel 1986, un prodotto da 6 milioni di dollari tutto sommato non così disprezzabile, ma anche orrori come Justice League of America del 1997, «80 minuti della mia vita che non torneranno mai più» come lo definì lo scrittore di fumetti Mark Waid. Peccato che insieme a questi insuccessi ne abbiano fatto le spese le buone colonne sonore di Kevin Kiner (Star Wars: The Clone Wars, Stargate SG-1 e CSI: Miami) per l’eroe Marvel, e di John Debney (La passione di Cristo) per la Lega della giustizia della DC Comics.
Wonder Woman nel 2011 stava per diventare un nuovo telefilm, interpretato da Adrianne Paliki, una perfetta Diana Prince a livello visivo. Dopo aver visto il pilot, il critico televisivo Alan Sepinwall lo descrisse come «imbarazzante (…) Tutto ciò che temevo, e anche di più». La colonna sonora è affidata a Chris Bacon (Men in Black: International e Bates Motel) che si trova nel non invidiabile ruolo di arrivare secondo dopo l’iconica sigla anni Settanta di Charles Fox e del paroliere Norman Gimbel. Il musicista riprende quel motivo e lo rielabora stancamente toccando pochissimo il modello. Il resto della colonna sonora sono stanchi commenti alle scene che ricordano stavolta il Denny Elfman del Batman di Tim Burton, ma senza averne la stessa imponenza. Furono molti gli aspetti del pilot che non piacquero ai vertici della NBC, a iniziare dal costume indossato dalla Palicki, che cancellava l’aspetto patriottico ed esaltava fin troppo la fisicità e l’avvenenza dell’attrice: «Troppo trash e pornografico» lo definiva la piattaforma The Hollywood Reporter. Nulla a che vedere sia con il telefilm anni Settanta che con il film Wonder Woman del 2017 diretto dell’agguerrita regista Patty Jenkins.
Anche Aquaman, prima di Jason Momoa, fu lì lì per diventare un telefilm, nel 2006, sviluppato dai creatori di Smallville Al Gough e Miles Millar per The WB Television Network. A interpretare Arthur «AC» Curry stavolta c’era il meno carismatico Justin Hartley, perfetto poco tempo dopo però per interpretare, sempre per lo stesso canale, l’eroe Arrow. Stavolta però siamo davanti a un prodotto tutto sommato buono, non distante dagli standard di Smallville. Ad occuparsi delle musiche Didier Rachou, noto soprattutto per il suo lavoro nel serial Sex and the City, che qui fa un lavoro egregio con una intro solenne e una certa ecletticità nel commentare il prodotto passando dai classici cori al rock più metallico, soprattutto quando il pilot dovrebbe lanciare le drammatiche basi per proseguire la storia. Cosa che non successe.
MACCHINE LENTE
Tra i tanti progetti abortiti ce ne sono alcuni che avremmo voluto vedere come un serial tv sull’antieroe Darkman, l’action muscolare Black Jack diretto da John Woo e un telefilm basato sul romanzo Meno di zero di Brett Easton Ellis. Spicca però per bizzarria un progetto chiamato Knight Rider 2000, un seguito futuristico di Supercar, serie cult anni Ottanta resa celebre dall’attore tedesco citato prima David Hasselhoff. Un budget di ben 6 milioni di dollari, come per l’analogo Nick Fury, e lo stesso esito: la bocciatura a proseguire la serie. Nel pilot KITT non è più la storica Pontiac Firebird Trans Am della serie televisiva, ma una Chevrolet Bel Air del 1957 prima e un prototipo futurista (in realtà una Pontiac Banshee, chiamata qui Diane 4000, Knight Industries Four Thousand o KIFT) poi. Le funzioni avveniristiche di KITT, anche quando è installato sulla nuova vettura, sono limitate: l’unica di rilievo è quella di viaggiare sull’acqua, già vista nella serie tv (Ritorno a Cadiz, seconda stagione), mentre non vi è nel film alcun Turbo Boost (funzione tipica dell’auto che gli consentiva di effettuare salti anche molto alti) e nessun uso della Super-Velocità. Queste, e la notizia che David Hasselhoff non voleva interpretare tutta la nuova serie, fecero scatenare la rabbia dei fan. Unica cosa però notevole sono le musiche di Jan Hammer, così buone da racchiuderle poi in un album, il magnifico Drive. Manca la classica sigla di Knight Rider, ma viene sostituita da tonalità jazz con l’uso innovativo della Korg Wavestation, un sound sicuramente più elettronico dell’originale. In Italia il pilot uscì come Supercar 2000-Indagine ad alta velocità, solo per il mercato delle vhs, ma fu trasmesso tante volte in tv con, sembra, buoni risultati di ascolti.
Dispiace che, a causa di progetti il più delle volte scadenti, si siano persi lavori eccellenti di musicisti. Tra tutti, come fanalino di coda, ha un ruolo regio la colonna sonora di J. Peter Robinson (Cocktail) per il disastroso The Omen di Jack Sholder del 1995, ripresa stanca del classico horror Il presagio di Richard Donner. Se nel film del 1975 si parlava in maniera umana del tragico destino di un anticristo, qui ci si perde in una storia dal sapore vagamente sci-fi di demoni che passano da un corpo all’altro come nel cult L’alieno, non per nulla sempre di Jack Sholder. Un guazzabuglio indigesto che deve convivere con la natura alta della creatività di J. Peter Robinson che scrive una delle migliori colonne sonore per un serial horror che, nei progetti, doveva vivere più e più stagioni. Il classico tema Ave Satani di Jerry Goldsmith viene abbandonato a favore di una melodia più dolce, campane tubolari che richiamano la famosa colonna sonora di Mike Oldfield per L’esorcista e tastiere accompagnano i titoli di testa donando all’opera una malinconia incredibile, mai percepita dall’intreccio vagamente X-Files del prodotto.
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