La malattia come cura
Verità nascoste Natale e Capodanno, due date che hanno sempre combattuto la solitudine. La solitudine era una malattia di cui soffrivamo da tempo. Hanno fatto della malattia la nostra cura. Si guarirà forse dalla malattia, ma chi ci guarirà dalla cura?
Verità nascoste Natale e Capodanno, due date che hanno sempre combattuto la solitudine. La solitudine era una malattia di cui soffrivamo da tempo. Hanno fatto della malattia la nostra cura. Si guarirà forse dalla malattia, ma chi ci guarirà dalla cura?
Ginevra Bompiani: «Si stanno accanendo su Natale e Capodanno, due date che hanno sempre combattuto la solitudine. La solitudine era una malattia di cui soffrivamo da tempo. Ora viene usata per affrontare l’epidemia. Anche la forma più temuta della malattia: la morte.
Hanno fatto della malattia la nostra cura. Si guarirà forse dalla malattia, ma chi ci guarirà dalla cura? È un po’ quel che succede con la chemio: determina uno stato di malattia così grave che il male stesso soccombe. E poi soccombe il paziente alla cura.
Soccomberemo alla solitudine, con cui ci affacceremo sull’anno a venire.
Quando la sera, prima del tramonto, contemplo nel cielo i meravigliosi voli degli storni, penso a come devono essere felici e a come i loro voli renderebbero felici anche noi. La perfetta distanza che i volatili mantengono fra loro, pur muovendosi con rapidità e senza perdersi l’un l’altro, è per me il modello di quello che potrebbe essere la nostra vita. Insieme, senza urtarci, senza perderci. Ma non è così. Ci siamo votati all’isolamento, alla perdita, alla lontananza, alla rabbia solitaria. Stiamo imparando, come dice Emily Dickinson, a ‘cenare senza, come Dio’».
Sarantis Thanopulos: «Ginevra ho sempre ammirato la tua prudenza coraggiosa. Soppesi le visuali con senso di misura, ma il passo del tuo sguardo attento è leggero. Poi con decisione, colto il punto, configuri senza ambiguità alcuna la tua prospettiva. Della malattia infettiva che ci affligge si muore, spesso in modo atroce. Un mio collega, stimato e voluto bene, è morto in questi giorni. Ha trascorso le due sue ultime settimane di vita in totale solitudine, in terapia intensiva.
C’è cosa più triste di morire da soli in prossimità di Natale, la festa per eccellenza degli affetti familiari per credenti e non credenti? Uno strano destino ci accomuna con i nostri caduti in una guerra che nessuno ci ha dichiarato (si dice che la natura si vendica, ma certo non ha cattive intenzioni nei nostri confronti). Loro a spegnersi nella quasi certezza che niente li possa riunire a coloro che amano e senza poterli salutare. Noi a combattere per non lasciar morire i sentimenti che ci legano ai nostri familiari e ai nostri amici.
Non è in gioco solamente la lontananza fisica, il perderci di vista che è di per sé doloroso e deprimente per l’amore. Scontiamo anche la confusione tra lontananza e prossimità che produce l’abuso della video-visione: il vederci che tradisce il tatto, l’olfatto, il gusto e il battito propriocettivo della nostra esistenza psicocorporea con cui entriamo in relazione con i ritmi del mondo.
Si continua a litigare sulla priorità che la nostra vita biologica ha in questa fase (sempre più lunga)sui nostri sentimenti. Senza accorgersi a sufficienza che la loro contrapposizione è la fonte di una malattia psichica seria della nostra convivenza. Il distanziamento come cura è servito, serve, servirà, ma gli effetti iatrogeni ci presenteranno un conto molto salato. Se non usciamo dal torpore ci troveremo distanziati da noi stessi».
Ginevra Bompiani: «Ti ringrazio delle belle cose che dici, non solo su di me, ma sulla solitudine. Anche se non la amiamo, dovremmo usarla per capire dove ci sta rinchiudendo: una casa non più aperta al mondo attraverso finestre e visite, ma attraverso schermi e incontri digitali. Una tana, infestata dai fantasmi. Perché la nuova solitudine è anche un assedio, come dice sempre Emily Dickinson: “Sola non posso stare, /mi vengono a trovare – /Ospiti non registrati /Cui non servono chiavi”.
Una compagnia di fantasmi, che non se ne andrà più. Staremo nelle nostre case infestate, vuoti e occupati come loro. Difendersi dalla malattia vuole anche dire proteggersi dalla cura. Essere sicuri che un giorno saremo di nuovo capaci di riconoscere la salute e non vedremo nell’altro un ‘malato asintomatico’ e in noi un ‘contagiato potenziale’. Insomma, che avremo curato il mondo».
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