Cultura

La magia protettiva degli antenati

La magia protettiva degli antenatiInstallazione con le opere dalla mostra «Sacri Spiriti. I Songye nella Cappella Palatina» al Maschio Angioino

Mostre La rassegna «Sacri Spiriti. I Songye nella Cappella Palatina» al Castel Nuovo di Napoli (visitabile gratuitamente) propone oltre centotrenta opere della scultura tradizionale dell'etnia africana insediata in un ampio territorio della Repubblica democratica del Congo

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 3 novembre 2022

Nella penombra della sala bianca dall’alto soffitto aleggiano spaventosi volti deformati e spigolose figure umane intagliate nel legno. Sono rappresentazioni scultoree di importanti personaggi, le maschere di antenati africani, le decine di statuette portafortuna d’area congolese. Gli oggetti magico- religiosi di una collezione privata, oltre centotrenta opere di piccole e grandi dimensioni, originali ed emotivamente coinvolgenti. Un’immersione nella creatività di una popolazione bantu, tra vetrine illuminate e banchetti oscuri, con la sensazione di condividere una misteriosa cosmogonia. È la mostra Sacri Spiriti. I Songye nella Cappella Palatina, allestita fino al 15 gennaio 2023, nella lunga navata, ultima eredità angioina nel Castel Nuovo di Napoli (visitabile gratuitamente dalle 10 alle 17 dal lunedì al sabato).

MAI PRESENTATA IN ITALIA, quella attuale è la più importante esposizione realizzata sulla scultura tradizionale dei Songye, un gruppo etnico africano insediato in un ampio territorio della regione centrale, quadrante sud-orientale, della Repubblica democratica del Congo. Nella navata la sequenza inizia con una scultura storica, esposta ad Anversa nel 1937 e prosegue con una serie di opere di particolare pregio estetico, con svariati elementi comuni. Questi lavori artigianali sono il frutto dell’intervento congiunto di scultori, di fabbri e di specialisti rituali che hanno aggiunto, nel corso del tempo, le conchiglie cauri al posto degli occhi, tessuti fatti a mano, fibre vegetali e pelli d’animali come ornamenti preziosi, borchie di metallo a imitazione delle pustole del vaiolo che colpì la comunità Songye a fine XIX secolo e poi corna di antilope, ossa di vario genere, spuntoni di ferro, perline su questi pezzi d’albero trasformati in eleganti oggetti di valore.
Gli autori di questi manufatti sono in gran parte anonimi ma si riconoscono alcuni atelier per l’omogeneità delle invenzioni come il maestro di Lusangay (riconoscibile per il trattamento quasi sferico della testa e l’assenza del mento squadrato) e quello di Plasmans (segnate da snellezza del corpo e lungo collo). Il potere energetico di queste statue ancestrali è talmente forte da rendere pericoloso trasportarle o toccarle, di solito si utilizzano bastoni o ganci di ferro.
I Songye erano essenzialmente agricoltori ma anche la caccia aveva un posto importante nella vita sociale. I capi villaggio erano considerati i sacri eredi degli antenati.Nella loro religione gli spiriti dei defunti avevano un posto importante nella vita quotidiana. Benevoli o malevoli, erano in contatto diretto con gli umani e venivano invocati attraverso la preparazione di sostanze magiche e il ricorso a statuette propiziatorie. Generalmente le figure di grandi dimensioni erano proprietà collettiva di un intero villaggio e servivano alle esigenze della comunità mentre quelle più piccole appartenevano a un singolo individuo o una famiglia.
Questi oggetti sono fatti di materia, credenze, desideri, parole e relazioni. Gli elementi aggiuntivi e i residui delle attività rituali ne hanno sovente modificato la superficie, fino a trasfigurarne le sembianze. Impossibile non cogliere il rapporto corporeo di intimità e passione che esisteva tra gli uomini – a livello comunitario e individuale – e le divinità. D’altra parte, in tutte quelle pratiche, la dimensione di cura e protezione era centrale.

NON CI SI RIVOLGEVA a un oggetto di culto per pura contemplazione mistica, ma per migliorare la propria vita terrena, per guarire da una malattia, per proteggersi dal malocchio e dalle forze negative, per scongiurare la sterilità e la miseria, per favorire la prosperità delle terre e della collettività.
«C’è un forte pregiudizio sull’arte dei popoli non europei. Un immaginario fortemente negativo. Queste statuette venivano chiamate feticci. Oggi le definiamo figure di potere. Eppure questi oggetti hanno tutti i titoli per essere accostati ai capolavori grecoromani – sostiene Gigi Pezzoli, uno dei curatori insieme a Bernard de Grunne dell’evento prodotto da Andrea Aragosa per Black Tarantella -. Queste sculture, in lingua locale nkishi (al singolare) e mankishi (al plurale) evocano un’aura di mistero e di forza spirituale, spesso associabili alle pratiche religiose popolari, pratiche fuori dall’ortodossia in cerca di una protezione, di una guarigione, di un aiuto sovrannaturale, di qualcosa per affrontare i problemi dell’esistenza. (proprio a Napoli c’è il culto delle anime pezzentelle e il cimitero delle Fontanelle, luoghi di una devozione popolare radicata, quasi pagana, verso i teschi e le ossa abbandonate di gente povera, ndr). Queste opere devono essere ammirate per quello che sono, perfette espressioni dei valori estetici della cultura che le ha generate. D’altra parte, quando un oggetto continua a trasmettere con forza il mondo e l’esperienza di chi l’ha creato e a comunicare l’ineffabile che è al di la delle parole, dobbiamo semplicemente riconoscere che si tratta di arte».

UN NUCLEO di nove figure magico-protettive dei Songye è attualmente ospitato al Museo archeologico nazionale. Proprio nel luogo dove sono conservate straordinarie testimonianze delle antiche culture etrusche, greche e romane dell’Italia centrale e meridionale. Ma l’accostamento non è casuale. Queste figure magico-protettive dei Songye erano rappresentazioni di antenati, erano legate ai miti di origine e agli eroi culturali. Come tali, svolgevano funzioni protettive per le comunità, per le famiglie e per i singoli individui.

NEL MONDO ETRUSCO e romano queste stesse funzioni erano assicurate dai Lari e dai Penati a loro volta rappresentati sotto forma di statuette collocate all’ingresso della domus. Così come per i Songye, presso gli antichi etruschi e romani ogni avvenimento importante era posto sotto la protezione degli antenati che venivano onorati con sacrifici e offerte. Quell’unità tra venerazione dei defunti e problemi quotidiane dei viventi che serviva ad affrontare le prove dell’esistenza, nelle pratiche religiose precristiane che avvicinavano il cielo e la terra, come lo splendido pezzo di Maschio Angioino dove la mostra è ospitata.

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