Lena Dunham – apparsa spesso, a favore di Hillary Clinton, e a cui in primavera Donald Trump aveva consigliato di trasferirsi in Canada – ha scritto un saggio sulla sua rivista web, Lennyletter, («mercoledì è stato un giorno di lutto. Giovedì anche. Ok, mi do tempo fino a domenica. Ma poi è ora di lottare »).

Ethan Coen ha firmato per il New York Times un editoriale sarcastico e addolorato (in cui «ringrazia» Jill Stein, Gary Johnson, James Comey, Anthony Weiner, Jimmy Fallon, «tutti gli amici dei media», il collegio elettorale e l’elettorato americano concludendo: «We di it! We really did it!»). Jennifer Lawrence ha scritto un pezzo per la rivista online Broadly («Non lasciatevi sconfiggere da quello che è successo. Accendetevi di rabbia»).

Aaron Sorkin una lettera a sua madre e sua figlia, pubblicata su Vanity Fair («Trump è un maiale del tutto incompetente»). Judd Apatow, il primo a rompere il silenzio del «giorno dopo», ha detto a Variety: «È Trump la palude da bonificare. Questo paese passerà completamente sotto il controllo delle corporation. Il momento in cui le persone che l’hanno votato si accorgeranno che non è il loro salvatore ma il loro nemico numero uno sarà brutale. (Trump) è come George W. Bush. Solo peggio, perché è mentalmente instabile e ama la vendetta».

Infiniti i lamenti su Twitter –tra cui virato di humor quello del figlio di John Landis, Max (un fenomeno della rete, sceneggiatore pagatissimo e fervido anti-Trump), al lavoro sul remake del film di suo padre Un lupo mannaro americano a Londra: «Non volevo cambiarlo molto, ma adesso mi chiedo: il lupo mannaro deve proprio essere americano?». Nella sua domanda, è l’anticipo dello scarto d’immaginario che ci aspetta, di fronte all’era della presidenza Trump.

Nella costernazione generale, è persino più significativo, e assordante, il silenzio che arriva dalle generazioni di attori, sceneggiatori, produttori e registi hollywoodiani che pre datano quella dei social. Che dire di fronte a quello che è successo? Joe Dante ha twittato il trailer di The Candidate (1972), il film di Michael Richie, con Robert Redford nel ruolo di un candidato fantoccio, che vince suo malgrado – «vi sembrerà una di quelle fiabe che si leggono prima di andare a letto in confronto alla fine surreale della campagna 2016», garantisce il regista di Gremlins.

Barbra Streisand preferisce: «Non ci sono parole per descrivere quello che provo».
Come Ellen DeGeneres, Oprah, LeBron James, Bruce Springsteen, Lady Gaga, Amy Schumer, Robert Downey Jr., Streisand e decine di altre celebrities non hanno aiutato Hillary Clinton a vincere la presidenza, nessun lamento, moto di disperazione, di scherno o di rabbia, e nessuna chiamata alle armi, può nascondere il fatto che, l’8 novembre, un grezzo, pacchianissimo, reality, semi-improvvisato, ha battuto simbolicamente anche Hollywood –la sua magia, la sua tecnologia, i suoi valori, i suoi soldi e il suo politically correct così detestato dalla Red America.

Un miliardario xenofobo con una grottesca pettinatura arancione ha «licenziato» la candidata delle star. Omarosa Manigault –cattivissima della prima stagione di The Apprentice, e adesso responsabile dell’outreach afroamericano per conto di Trump (!) – andrà alla Casa bianca. E con lei non il colto, geniale, filantropo della sinistra Alec Baldwin (che ha interpretato Trump su Saturday Night Live), ma suo fratello Stephen, il più brutto e privo di talento della famiglia, oltre che l’unico reazionario. Come Washington, e come i media mainstream, Hollywood è parte di quell’élite che il voto di martedì scorso ha rifiutato. Una comunità privilegiata, educata e rarefatta, fatta di gente piena di fisime e out of touch con il furore cieco che ha consegnato il paese al nuovo presidente.

Chi se ne importa se scappano in Canada o (più trendy) in Nuova Zelanda? Sghignazzano sui siti alt right alla Breitbert.com, il cui direttore editoriale, Steve Bannon, è appena stato nominato consigliere speciale della Casa bianca.
C’è chi auspica che, dalla mortificazione delle élite delle due coste, in risposta alla vittoria di Trump (e del suo detestabile immaginario) nasceranno un’arte, una letteratura e un cinema politicizzati, e meno assorti in se stessi. Una nuova controcultura.
L’idea di un ritorno alla produzione impegnata delle Hollywood a cavallo tra gli anni sessanta e settanta è interessante. Certo, fa un po’ a pugni con il trend della globalizzazione dello spettacolo. In onore all’ondata populista, la Fcc di Trump potrebbe mettere il veto al mega-accordo tra AT&T e Time –Warner, ma le Major hollywoodiane sono sempre più proiettate verso i mercati esteri e i loro listini sempre più ancorati a una politica di blockbuster globali.

Anche la scena indipendente sta passando di mano in fretta. È di ieri la notizia che un’azienda metallurgica cinese ha acquistato l’80% della Voltage Pictures. La vivace casa produttrice di The Hurt Locker e Dallas Buyers Club è solo l’ultima delle compagnie indipendenti di qualità a finire sotto il controllo cinese, dopo IM Global (quest’anno dietro all’ultimo film di Mel Gibson, Hacksaw Ridge), Legendary (Steve Jobs, Straight Outta Compton, Interstellar) e Dick Clark Productions, che tra le altre cose produce i Golden Globes. Interesserà ai cinesi finanziare «la resistenza» hollywoodiana contro Trump?

Il cinema ha un modo tutto suo, e inafferrabile, di anticipare/riflettere/dar senso il/al presente che lo circonda.
La nuova America di Trump –più o meno indirettamente- trasparirà presto anche sui grandi schermi. In attesa di quel momento, le immagini che più mi ricordano quello che è successo la settimana scorsa sono quelle di un film del 1968, girato in bianco e nero, poco prima dell’omicidio di Martin Luther King, nelle campagne vicino a Pittsburgh.

È La notte dei morti viventi, di George Romero, in cui un eroe nero (impensabile a quel tempo) e una ragazza bionda sono assediati da un esercito di cadaveri che camminano. E in cui le milizie di rednecks armati fino ai denti che arrivano alla fine per salvare l’umanità sono ancor più cattivi e temibili degli zombie.