I dati elettorali smentiscono un reale «sfondamento» della destra nella società italiana. È un fatto preoccupante che essa (da tempo estremizzata) si avvia a governare con una forte maggioranza parlamentare, avendo ottenuto solo il 44% dei voti: il suo risultato peggiore da Berlusconi in poi. Le forze politiche votate dai cittadini che alla destra si oppongono (il «campo largo» mancato) hanno raccolto ben di più: il 49%.

Questa anomalia, di cui la destra, che vuole cambiare la costituzione (con meno della metà dei votanti e meno di un terzo degli aventi diritto al voto), usufruirà, senza averla determinata, è il risultato di due cose: la legge elettorale e la disunione delle forze democratiche. Nessuna delle due è una cosa sana.

La legge elettorale è un guazzabuglio di dubbia costituzionalità che, fatto su propria misura da chi l’ha voluta (Renzi), colpisce in modo grave la rappresentanza. Un ibrido mostruoso che nulla ha a che fare con l’uninominale anglosassone, il doppio turno francese, il proporzionale con sbarramento tedesco. Questi sono sistemi elettorali che cercano di far sposare governabilità e rappresentanza, ognuno con i suoi limiti, ma con un’intrinseca coerenza che li lega alla tradizione politica del contesto in cui operano e all’equilibrio complessivo dell’ordinamento istituzionale e costituzionale.

Il nostro è un coniglio uscito dal cappello di un apprendista stregone. Se aggiungiamo la lunga deprivazione dei cittadini del loro diritto di scegliere i loro rappresentanti, che precede questa legge, si comprende come il centro della vita politica del paese sia ormai stabilmente spostato dal parlamento ai palazzi del governo e alle sedi dei partiti.

Questa situazione ha fatto ammalare la politica e il rapporto dei cittadini con la Polis. Il centralismo elettorale spinge i politici all’autoreferenzialità, li stacca dalla vita sociale e dalla società civile e li rende molto vulnerabili al potere economico (fatto feroce dalla globalizzazione). Espropria i cittadini del loro potere di contrattazione, scoraggia i loro legami solidali e culturali, svuota di significato la loro partecipazione alla gestione delle cose comuni. La società italiana si è impoverita molto nel suo assetto emotivo, immaginativo e intellettuale collettivo.

Ciò ha favorito l’impulsività del pensare e dell’agire e espone l’intera comunità nazionale all’attrazione dei pifferai magici, dei demagoghi di turno che più persiste questo clima insano più portano il paese verso l’autoritarismo. Nonostante tutto ciò e l’indebita pressione dei sondaggi, il popolo italiano, pur deluso e smarrito, ha, nell’insieme, respinto la destra.

Le forze democratiche non hanno capitalizzato il consenso ottenuto perché si sono disunite. L’indebolimento della loro reale rappresentanza dei cittadini (che consiste nel far sviluppare la rete dei loro luoghi di incontro, frequentarli, conoscere le loro ragioni e aspirazioni, dare forza propulsiva, coerenza e progettualità alle loro rivendicazioni) ha indebolito anche il senso di responsabilità nei loro confronti.

In situazioni di crisi (etica, socioculturale, economica) della Polis, emerge come reazione al senso di impotenza il narcisismo. Le forze autoritarie si compattano perché la crisi consente loro di sfruttare il senso di precarietà e orientare le emozioni, i pensieri e le azioni della collettività verso un assetto di chiusura nei confronti dell’alterità, rigidamente difensivo. Promuovono un narcisismo omogeneizzante, massificante.

Le forze democratiche vengono, invece, catturate dal narcisismo delle differenze e piuttosto che unirsi di fronte al comune nemico si attaccano tra di loro. Le differenze non dialogano ma competono per fare vedere quale tra di esse è la più bella. Spettacolo triste, condito dall’idealismo dei «puri», che si ripete sempre. Poiché la storia alla maggioranza dei politici che la ignorano non insegna niente.