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La macchina da presa sul campo di battaglia

La macchina da presa sul campo di battaglia

Intervista Il regista Saeed Taji Farouky parla del film girato insieme a Michael McEvoy dal punto di vista dell’esercito afghano di stanza nella provincia di Helmand, "Tell the Spring Not To Come This Year"

Pubblicato circa 9 anni faEdizione del 18 settembre 2015

È la stagione dell’oppio in Afghanistan, le truppe dell’ANA (Afghanistan National Army) di stanza nel distretto di Helmand, nel sudovest del paese, girano tra i campi ad ammonire i contadini: le piantagioni di oppio verranno distrutte. Io coltivo il grano, giurano tutti, il campo di papaveri è di mio cugino. Da poco le truppe americane che hanno addestrato l’esercito afghano sono partite, richiamate finalmente negli Stati Uniti dall’amministrazione Obama, che su questa promessa ha costruito una campagna elettorale.                                                                                                                 

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I ragazzi che si sono arruolati – la maggior parte da poco, per sfuggire alla disoccupazione, perché non sono riusciti ad entrare all’università e così via – ora sono soli, in una delle province in cui la guerra contro i Talebani, che non hanno scelto, è più sanguinosa. Sul campo li raggiungono due filmmaker: Saeed Taji Farouky e Michael McEvoy, che con Tell the Spring Not To Come This Year – in programma al Milano Film Festival (www.milanofilmfestival.it) – fotografano questo momento di passaggio dall’interno dell’esercito. McEvoy fino a poco prima aveva prestato servizio in Afghanistan come traduttore intermediario ufficiale per le forze armate britanniche, ed è attraverso di lui, spiega Farouky «che ci siamo guadagnati la fiducia dei soldati, dato che lo conoscevano già molto bene. Inoltre, anche se all’epoca non parlavo il Dari, in quanto palestinese riuscivo a farmi capire almeno un po’ con l’arabo e venivo considerato come loro, proveniente da un paese occupato».

Il documentario segue le vite dei soldati dalle mansioni più banali, come lavare un tappeto, al campo di battaglia, dove vengono accerchiati e messi a dura prova dalle truppe talebane, che mietono vittime e fanno feriti. Ma quando vengono catturati si vede quanto anche loro siano giovani, la loro paura, e allora – dice un ragazzo dell’ Afghan Army – «penso che non riuscirei mai ad ucciderli».
Il senso di tutto il film, spiega infatti Farouky, «è poter dare un’immagine della guerra dalla prospettiva degli afghani».

Come è nata l’idea di girare lì, in quel preciso momento?
Mike mi ha contattato alla fine del suo contratto, perché in Afghanistan aveva visto delle cose di cui le persone non sono consapevoli. Il nostro è un film che riguarda degli uomini in quel paese e di quel paese: abbiamo visto una miriade di storie sui soldati stranieri in Afghanistan, ma c’è anche bisogno di capire gli afghani stessi.

Ciò che emerge è la difficoltà di «proteggere il popolo dal nemico», come dicono i vostri «protagonisti», in una situazione in cui le due cose spesso coincidono.
La cosa più sorprendente per me era la fluidità del campo di battaglia. Se si va a vedere la rappresentazione mainstream che ne fanno i media si potrebbe pensare che sia una guerra molto semplice: l’occidente e le truppe afghane contro i talebani. Ma in realtà fra questi ultimi ci sono anche persone che vogliono solo proteggere i loro cari. Nella fattoria di un semplice contadino possono arrivare i talebani, e minacciarlo di morte se non dà loro metà del suo raccolto, o offrirgli 200 dollari per combattere con loro per un’estate. Se lo fa viene catalogato come ribelle, non importa se voleva solo salvarsi la vita o sfamare la sua famiglia. Per la maggior parte delle persone è praticamente impossibile schierarsi con l’esercito o i talebani al 100%.

I talebani sono una presenza costante del vostro film, anche se non si vedono mai, come percepivate questa incombente assenza?
Sentivo la loro presenza solo attraverso la paura delle persone: non li abbiamo quasi mai visti, come è normale per chi sta in prima linea. E quando durante una battaglia ne sono stati catturati una decina, per la maggior parte mi sono solo sembrati dei ragazzi poveri e terrorizzati. I «foot soldiers» non sono i killer terrificanti a cui ci hanno abituati.                                                                         

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Come siete arrivati alla decisione di rischiare le vostre stesse vite per seguire i ragazzi dell’esercito in pericolose missioni sul campo?
La principale ragione per me era che mi fidavo di Mike. Vengo avvicinato da molte persone per fare film in situazioni pericolose, ma non mi interessa chi lo fa per il brivido o per sentirsi coraggioso. Negli ultimi 15 anni ho dedicato la mia vita a raccontare storie di questo tipo, e lo faccio perché lo so fare e perché per me è un modo di reagire a ciò che mi fa arrabbiare, che penso essere ingiusto: le guerre combattute in nostro nome per ragioni che non trovo legittime. Potrei protestare in strada, ma non mi ci ritrovo. Potrei combattere, ma non fa per me. Sono solo un uomo con la macchina da presa, e questo è il mio modo di combattere un sistema che ci vuole ignoranti.

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