Raramente il cinema cileno si sofferma sulla straordinaria natura del paese e nel film di Sebastian Sepulveda Las niñas Quispe presentato dalla Settimana della Critica non di bellezze naturali si parla, ma degli oscuri baratri della mente in cui si poteva precipitare in un periodo del paese, il 1974, dove il muro della paura riusciva a raggiungere anche gli altopiani incontaminati su verso il nord, nella zona di Copiapò.
Il suicidio delle tre sorelle Quispe aveva fatto scalpore nel paese, colpito l’immaginazione in un modo che ancora oggi resta nel ricordo dei cileni come una leggenda, un mistero.
Gli stessi che in questi giorni si meravigliano nello scoprire i cruenti assassini, la sottrazione dei figli ai militanti uccisi, immagini inedite che una rete televisiva sta mandando in onda. Stupore, perché la borghesia ha continuato a credere che siano state tutte esagerazioni della izquierda, nulla trapelava dai media ed anche quel suicidio ebbe versioni diverse. Uccise dai militari come sosteneva la sinistra? Oppure suicidio? Il regista ha scelto la versione del suicidio e lo ha fatto con una tale violenza da farci ben intendere che le tre sorelle sono state in qualche modo suicidate dalla giunta che aveva preso il potere un anno prima. Il film , prodotto da Pablo Larrain, grande regista di Tony Manero di No, i giorni dell’arcobaleno dimostra ancora una volta di appartenere a una cinematografia vitale e imponente.
Le sorelle Quispe accudivano il loro gregge di capre sull’altura circondate dal nulla e furono trovate impiccate a un masso fuori dalla grotta dove abitavano durante tutta l’estate, come se avessero svolto un rituale. La fotografia di Inti Briones una volta tanto ci mostra lo scenario delle Ande circostanti in tutta la loro incredibile varietà di colori, gli spazi aperti, l’immensità del paesaggio dove i pastori svolgevano la loro attività senza sosta, producendo il formaggio fresco da vendere. Ma ormai in quella terra non passava più nessuno, gli altri pastori avevano venduto i greggi ed erano andati via. Infatti faceva parte del progetto della dittatura la «modernizzazione del paese» e con il divieto di possedere dinamite da usare nelle piccole miniere, per paura anche di eventuali attentati, era entrata in vigore anche la legge contro «l’erosione», il divieto di pascolo per non privare le montagne di vegetazione, allo scopo di eliminare le vecchie tradizioni ma soprattutto per il controllo di quei territori che potevano favorire agli esuli il passaggio verso l’Argentina (nel film l’esule è Alfredo Castro in un viaggio disperato). Il risultato fu lo spopolamento delle zone rurali.
Il senso di allarme, di paura che dilagava a Santiago e nelle altre città inesplicabilmente giunge anche in quei luoghi deserti con la cancellazione del futuro con la negazione dell’unica attività da loro conosciuta, durissima e instancabile tanto da averle trasformate in «brutas» come dice il titolo della pièce teatrale di Juan Radrigán da cui è stato tratto il film. La femminilità cancellata per sempre dal duro lavoro e dalla natura inclemente, dal vento che soffia incessante a 2500 metri, la raccolta della legna e del carbone, i pasti frugali. E nessuno con cui parlare. Destini già segnati dal suicidio del padre minatore e dalla morte della sorella avvenuta in inverno.
Per il regista che ha girato nei luoghi esatti degli avvenimenti, è stato fondamentale l’incontro con i familiari per stabilire che di suicidio si trattò: infatti non vi furono segni del passaggio di militari, tracce che non sarebbero sfuggite agli abitanti dei villaggi e poi, i militari non avevano tanta creatività da inscenare un rituale, con il loro cane vicino e le capre sgozzate, gli abiti migliori indossati per l’occasione. [do action=”citazione”]Tanto vivido è il paesaggio tanto più sono segnate da ombre i volti di queste donne, come ad evocare fantasmi: la bellezza che Francisca Gavilan riesce a nascondere in maniera stregonesca, la giovinezza che sta svanendo inutilmente di Catalina Saavedra e il volto duro come pietra di Digna Quispe, la vera nipote delle sorelle, l’ultima ad averle viste vive quando era ancora una bambina e che si accorse che qualcosa di strano era successo perché vide avanzare da soli gli asini della zia.[/do]
Le pietre in quei luoghi infatti parlano ben più delle voci, alle pietre si chiedono responsi, e ci sono massi a cui affidare i propri destini, accettare con dignità e ribellarsi a una legge della giunta che le priva di quello che resta della loro vita («vamos a morir de pena?» dovremmo forse morire di tristezza?). «La mia famiglia – racconta Sebastian Sepulveda, studi a Cuba e a Parigi – era in esilio, ma riuscimmo a tornare nel paese già nell’81. Mi sembrava che la paura dilagasse anche solo a fare la spesa al negozio all’angolo, non sapevi mai chi fosse la persona che ti stava di fronte. Un’atmosfera brutta e triste come dopo la guerra, come trovarsi dietro lo specchio».