Visioni

La lunga notte greca

La lunga notte grecauna scena di «Late Night»

A teatro «Late Night» del Blitz Theatre Group di Atene. Il dissesto di un paese, immagine angosciosa di quanto potrebbe succedere tra un momento in altri stati europei

Pubblicato circa 11 anni faEdizione del 19 ottobre 2013

Non è soltanto chi ama e coltiva la classicità, ma chiunque sia di equilibrata sensibilità e di qualche pretesa di democrazia, soffre oggi per quanto accade in Grecia. È la punta dell’iceberg, quasi la parola veritiera di Cassandra, quella che ci dà attraverso quella crisi l’immagine angosciosa di quanto potrebbe succedere tra un momento in altri stati europei, a cominciare dal nostro. Il combinato perverso tra la dittatura della finanza e l’inerzia di una classe politica corrotta e incapace, ha reso il paese che è stato la culla della cultura e dell’intelligenza occidentale, un terreno esplosivo, dove viene bombardata senza pietà (a suon di manganello o con i diktat di un governo senza identità) tutta l’organizzazione sociale, dai diritti del lavoro alla misura dei salari, alla libertà stessa di dissentire o di criticare.

Molti si chiedono come stia, e come reagisca, la cultura greca, un patrimonio ricco e composito che tutti abbiamo anche negli ultimi decenni rispettato e coltivato. Alla domanda risponde in modo significativo, benché non esaustivo (come del resto non è compito e potere dell’arte), un piccolo spettacolo, comparso per una sola sera anche in Italia, nel corso di una ricca tournée europea, e che ha inaugurato la stagione del Teatro Cucinelli a Solomeo, grazie al Teatro stabile dell’Umbria.

Late Night è il titolo della performance, interpretata e vissuta con grande spessore dai sei componenti del Blitz Theatre Group di Atene, tre donne e tre uomini, che ci sorprendono subito ad apertura di sipario. Perché è immediatamente chiaro come primo impatto che siamo fuori della tragedia e della classicità cui la scena greca ci ha da sempre abituato, pur con tutte le «modernizzazioni» e le riletture del caso. Qui siamo in un ambiente piuttosto delabré, il cui margine sui quattro lati è costituito da detriti e calcinacci, al di fuori dei quali si allineano casualmente sedie diverse. E questo è già un colpo al cuore, perché risuona come un non dichiarato riferimento al teatro di Pina Bausch. Anche perché, dopo qualche imbarazzo e qualche colpo di tosse, avviata una musica dall’apposito apparecchio, quelle tre coppie si mettono a ballare. Timidi se non proprio goffi, senza esibizionismi e senza numeri di bravura, che anzi uno di loro che ad ogni pausa tenta la spaccata, si ritrova regolarmente con una gamba dritta e una «a elle».

E mentre ballano balli diversi del repertorio «di sala», ci fanno sentire i loro discorsi pieni di ricordi: di Berlino, di Londra e di altre città francesi e svizzere, dove la vita aveva un suo stile e una sua decenza, rispetto a quella di Atene oggi. Senza mai nominare la capitale greca, ma col riferimento diretto di una realtà che subiscono (e cercano di evadere con i loro passi di ballo) e della loro lingua che scopre la propria felice musicalità.

Uno spettacolo struggente, da vedere e danzare col cuore, perché in quei gesti minuscoli c’è il germe pieno della rivolta che l’arte può portare contro i bagni di sangue della trojka finanziaria e contro il malgoverno della cosa pubblica, per risalire la strada impervia della privata felicità. Davvero, come dice uno di loro, «una storia d’amore in mezzo alle rovine d’Europa».

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