Le nostre società vivono ormai da tre lustri sotto il peso della crisi. A partire dal crack di Lehman Brothers la crisi fu dapprima negata, poi sminuita, ed infine data frettolosamente per superata. Ma i meccanismi che l’hanno generata rimangono ancora operanti, acuiti dalla pandemia e dal ritorno della guerra in Europa. Basti pensare a come la speculazione ha potuto agire sull’andamento dei prezzi delle materie prime al momento dello scoppio del conflitto russo-ucraino, contribuendo all’avvitamento della spirale inflazionistica ben più della guerra stessa. Tutto questo mentre in Europa, a causa del perverso meccanismo che regola la finanza continentale, sono gli Stati e l’insieme dei cittadini a vivere continuamente sotto il ricatto degli speculatori, cui si intende di nuovo delegare la gestione dei debiti pubblici.

In questo panorama ha preso forza un vento di destra che sottopone a forti tensioni – o addirittura, in alcuni casi, tenta esplicitamente di travolgere – le istituzioni democratico-repubblicane. Eppure, nell’immediatezza dello scoppio della crisi, il protagonismo era stato assunto da movimenti sociali di sinistra come gli Indignados, Occupy Wall Street o Nuit debout, i quali, a loro volta, avevano costruito il retroterra sia per la nascita di formazioni politiche nuove come Podemos o France Insoumise, sia per la svolta a sinistra di partiti già esistenti come il Labour. Addirittura i democratici americani, con Sanders, si erano posti sul terreno dell’alternativa di sistema.

È però la destra che si mostra maggiormente in grado di capitalizzare la crisi. Il sovversivismo di Bolsonaro in Brasile si inserisce in una scia inaugurata dall’assalto al Campidoglio dei seguaci di Trump; trova sponde in tutto il continente americano (attentato a Cristina Kirchner in Argentina); fa eco all’egemonia reazionaria in Europa orientale; e crea non pochi imbarazzi al governo italiano, le cui componenti, se non nei modi, nei fini sociali non si distanziano troppo dal loro omologo brasiliano.
In Spagna, poi, dove sopravvive un governo di sinistra preso a modello per le istanze di cambiamento sociale di cui è portatore, tutti i sondaggi danno come prossima vincente un’alleanza al cui interno figura l’estrema destra di Vox, in posizione tutt’altro che marginale.

Se la crisi colpisce con particolare violenza i ceti popolari, le formazioni di sinistra sono sulla difensiva, mentre si afferma una destra fortemente caratterizzata in senso classista. La volontà di frenare ogni ipotesi di redistribuzione un po’ più equa del peso della crisi emerge tanto dalla manovra economica del governo italiano quanto dall’album di famiglia dei sostenitori di Bolsonaro.
Che nella crisi prosperino le ricette della destra è un luogo comune da tempo in circolazione. Da quando negli anni Venti e Trenta il fascismo fece piazza pulita di ogni presunto automatismo intercorrente tra crisi economica del capitalismo e avanzamento verso una società più giusta, secondo una vecchia idea propria del socialismo riformista della II Internazionale. All’interno del campo rivoluzionario Gramsci (assieme a Lenin e Luxemburg, ma con specificità proprie che gli derivavano dall’esperienza diretta del fascismo) operò una critica decisiva a questa variante irenica del socialismo, introducendo alcuni elementi di grande interesse per l’oggi.

Secondo Gramsci, infatti, non solo non si dà nessun automatismo tra crisi del capitalismo e sbocco rivoluzionario, ma anzi, al contrario, la crisi costituisce di per sé un terreno ideale per le forze di conservazione. Quanto più la crisi si aggrava, tanto più le classi dominanti, oltre a fare ricorso al potere dello Stato per riprodurre la propria funzione, tendono ad attingere nuove forze e personale addestrato alla direzione politica, in maniera legale o illegale, dalla grande finanza, dall’alta burocrazia, dall’esercito, dalle chiese.

Ecco dunque che troviamo spiegati in Gramsci i meccanismi che hanno portato negli ultimi lustri allo svilimento un po’ ovunque degli istituti della democrazia repubblicana ed hanno consolidato la tendenza alla presa del potere diretta da parte dei rappresentanti dei grandi gruppi finanziari.
La crisi pertanto, per coloro che si pongono l’obiettivo di risolverla in senso democratico, richiede un “di più” di azione politica. Per tornare ancora a Gramsci, non c’è via d’uscita democratica alla crisi se i gruppi sociali subalterni non si pongono sul terreno dell’egemonia, non iniziano a ricoprire una funzione dirigente prima ancora che si presenti l’occasione di controllare direttamente le leve dello Stato. Quel “di più” di creazione politica richiesto dalla crisi deve tradursi in uno sforzo innovativo di organizzazione politica. Si tratta di un lavoro che i movimenti sociali avevano iniziato al momento dello scoppio della crisi, che la restaurazione neoliberale sembra aver interrotto, ma che è più che mai necessario riprendere per sbarrare le porte al vento di destra che spira sulle nostre società.