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«La lunga corsa», fuggendo dalla quotidianità imposta

«La lunga corsa», fuggendo dalla quotidianità impostaUna scena da «La lunga corsa»

Al cinema Il nuovo film di Andrea Magnani, protagonista un ragazzo figlio di due detenuti cresciuto in carcere

Pubblicato circa un anno faEdizione del 24 agosto 2023

Ambientare una commedia all’interno di un carcere è, di questi tempi, e purtroppo anche di tanti altri, una coincidenza sfortunata. In questi giorni, sono accaduti fatti tragici che non rappresentano affatto una novità, ma una drammatica conferma di cosa significhi condurre la propria esistenza all’interno di un istituto di detenzione.
Andrea Magnani, al suo secondo lungometraggio dopo Easy – Un viaggio facile facile del 2017 (presentato al Festival di Locarno), con La lunga corsa – Una commedia stralunata (in concorso al Festival di Torino), evidentemente non aveva intenzione di sovvertire l’immaginario a proposito dei penitenziari e degli orrori che vi accadono dentro. Più semplicemente ha pensato a un luogo chiuso, onirico e con uno spazio e tempo circolare, dove ambientare la storia di una lenta formazione dai toni leggeri. Una favola per narrare la parabola di un ragazzo figlio di due detenuti senza speranza, cresciuto in un carcere da un secondino, una specie di secondo padre promosso abbastanza facilmente al primo posto, e vincolato affettivamente a un ambiente dal quale nella realtà tutti vorrebbero uscire se non evadere.

JOHN LANDIS nel 1980 aveva concluso The Blues Brothers con i titoli di coda e un’esplosione di gioia musicale e balli sfrenati in una prigione statunitense. Jake, Elwood e i componenti della banda finivano di malavoglia la loro avventura in un universo parallelo, in un microcosmo dove comunque si replicavano vizi e virtù. Giacinto, questo il nome del giovane che vediamo neonato, bambino, adolescente e poi maggiorenne, al contrario dei due fratelli di Chicago, non possiede particolari talenti. Non suona strumenti, non canta, non balla, non ha alcuna relazione col mondo esterno. Non è in missione per conto di nessuno e si caccia in piccoli guai non per colpa delle cavallette. E, soprattutto, non conosce il senso autentico della libertà, almeno come è riportato nei libri di filosofia.
Per Giacinto esistono solo le sbarre, le porte che si aprono e si chiudono ermeticamente, le celle, la sala destinata alle visite, l’ambulatorio, gli uffici. E il suo unico punto di riferimento è Jack, il secondino che gli ha cambiato il primo pannolino. E poi, intorno a questa strana coppia, compaiono una direttrice con una benda all’occhio e un’ergastolana alla quale far riscoprire il rumore del mare.

IL GIOVANE «stralunato» è in una comfort zone dalla quale non sembra voler scappare. E lo sono anche quelli che lo circondano, nel loro continuo girare in tondo sebbene fissi in una granitica immobilità. Da questo punto di vista, Giacinto e i suoi compagni non sono per niente simili a Phil Connors, il meteorologo interpretato da Bill Murray in Ricomincio da capo di Harold Ramis. In quel caso, il personaggio condannato a vivere in eterno lo stesso giorno (il 2 febbraio), cerca con ogni mezzo di interrompere l’incantesimo e di tornare alla varietà dell’esistenza, all’imprevedibilità del futuro, insomma al libero scorrere del tempo.
La lunga corsa è, perciò, un film su un’umanità cristallizzata che resta attaccata a poche certezze senza provare minimamente a deviare dalla via di tutti i giorni, prolungando il sortilegio. La reclusione raccontata da Magnani non coincide con la pena detentiva, bensì con quella quotidianità che un po’ abbiamo scelto, un po’ ci è stata imposta. Dunque, nel correre di Giacinto, l’unica cosa che il ragazzo sa fare, è inclusa sia la ripetitività di un movimento fine a se stesso, sia la possibilità di prendere una direzione imprevista, di compiere uno strappo e, ripensando al meteorologo con il volto di Murray, di passare al 3 febbraio.

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