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La lunga corsa del Boss su quella Cadillac del ’57

La lunga corsa del Boss su quella Cadillac del ’57Bruce Springsteen in concerto – Reuters

Bruce Springsteen Nell'ultima tappa a Roma ritrova i suoi inizi. L’esecuzione quasi integrale dell’lp del 1973 culmina nella rara «New York City Serenade». Riporta ai giorni dell’invenzione della nostalgia americana e della riscoperta del rock’n’roll

Pubblicato più di 11 anni faEdizione del 13 luglio 2013

«Sono le quattro del mattino, sta piovendo. Oggi ho 27 anni, mi sento vecchio, ascolto i miei vecchi dischi e ricordo di quanto le cose fossero diverse lo scorso decennio». Quasi quarant’anni fa il critico di Rolling Stone Jon Landau scrisse un celebre pezzo che iniziava così. Era la recensione di un concerto di Bruce Springsteen: metteva in piazza con uno slancio oggi irripetibile tutto lo scazzo, il disincanto, la delusione (personale e politica) nei confronti della musica di quegli anni difficili. Passò alla storia per una frase: «Ho visto il futuro del rock’n’roll», lo slogan col quale la Columbia lanciò Born to Run. Landau, nel frattempo, era diventato produttore e consigliere spirituale del cantante.
Oggi, grazie alla dedizione degli springsteeniani e a certi prodigiosi siti internet che conservano memoria di tutte le canzoni eseguite nei concerti del Boss, sappiamo che quella sera di maggio all’Harvard Theatre di Cambridge, Landau ascoltò Kitty’s Back, Incident on 57th Street, Rosalita, New York Serenade: la quasi totalità delle canzoni dell’album The Wild, The Innocent and the E street Shuffle. Che Springsteen suonò Spirit in the night e accennò Born to Run, un pezzo profondamente influenzato dai b movie di macchine e ragazze al quale stava febbrilmente lavorando per giungere a una versione «priva di clichè». E che, come bis, fece Twist and Shout.

Cioè, venendo a giorni nostri, il cuore del concerto dell’altra sera all’Ippodromo di Roma, ultimo in Italia del Wreckin’ Ball Tour. Per trentamila persone, accolte da un’organizzazione almeno decente per gli standard della capitale, e aperto appunto da Spirit the night con un grande attacco da predicatore gospel («I feel the spirit!»). Un concerto che gli springsteeniani già definiscono storico, proprio per la rarità della presenza di quelle canzoni in scaletta e in particolare per una versione unica di New York City Serenade, con gli archi della Roma Sinfonietta sbucati dal nulla a contrappuntare l’epica stradaiola di ladri, papponi e Cadillac sulla Broadway. Dove riconosci echi di Leonard Bernstein, Gershwin, di Van Morrison, e quella prodigiosa sfrontatezza giovanile che avevamo quasi dimenticato nello Springsteen adulto e «operaio».

[do action=”citazione”]La regola del tour, in giro per il mondo dal marzo dello scorso anno, è che non ci sono regole[/do]

Assieme alle vecchie routine da «gran lavoratore dello spettacolo» – apprese da James Brown, mai più abbandonate – le tre ore e passa di esibizione, il sudore copioso, le strette di mano alle prime file, c’è che la serata può pescare dall’intero repertorio e magari chiedere l’aiuto di chi tra il pubblico s’è portato da casa un cartello con su scritto il titolo di una canzone. Nelle intenzioni del 63enne ex ragazzo del New Jersey ogni spettacolo è unico, e vive in simbiosi con la folla venuta a partecipare al rito.
Può capitare, allora, di sentire per intero Born to Run, o Darkness, e dimenticate b-side sparse. Oppure ancora, come è capitato a noi, di cadere con tutte le scarpe in The Wild, the innocent and E street shuffle. 1973. All’epoca il mito del Boss era di là da venire. «Una compagnia discografica/ mi ha dato un anticipo», cantava in Rosalita. E invitava la ragazza a fuggire da mamma e papà («i vincenti usano la porta/ allora usala Rosie, è lì apposta»). Prima di studiare da vicino Roy Orbison, Phil Spector, i primi film di Scorsese, e in tempi più recenti il gospel e Woody Guthrie – Springsteen viveva come un 22enne di provincia, cercava la sua strada seguendo Van Morrison e gli Allman Brothers (leggenda vuole che Duane Allman diede personalmente lezioni a Steve Van Zandt), come si ascolta bene anche oggi in Kitty’s Back. Guidava una Cadillac del ’57 con il carburatore potenziato: il feticcio sul quale ha costruito un’intera epica, e forse una delle canzoni d’amore più belle di tutti i tempi: Thunder Road, qui in versione acustica («Cos’altro ci rimane da fare/ se non tirare giù il finestrino/ e lasciare che il vento spinga indietro i tuoi capelli?»).

[do action=”quote” autore=”Jon Landau, The Real Paper, 22 maggio 1974″]«Sono le quattro del mattino, sta piovendo. Oggi ho 27 anni, mi sento vecchio, ascolto i miei vecchi dischi e ricordo di quanto le cose fossero diverse lo scorso decennio»[/do]

«Magro, vestito come un reietto degli Sha-Na-Na, come un misto di Chuck Berry, il primo Bob Dylan, Marlon Brando», scriveva di lui Jon Landau nel ’74. Il pezzo di Landau andrebbe riletto tutto perché è un manifesto, una poetica che Springsteen non ha mai abbandonato. Il critico sparava: «Le canzoni sui conigli bianchi e sull’amore hippie mi fanno ridere quando non mi fanno schifo». Gli Sha-Na-Na invece erano una specie di musical portatile anni ’50 nato nelle università post-68 paralizzate dalla repressione. Ballavano e cantavano sulle macerie, imbottiti di semiologia e studi sul camp.

Riesumarono il vecchio rock’n’roll, inventarono letteralmente la nostalgia per un America mai esistita. A Springsteen capitò di aprire i loro concerti, e certamente di assorbire la lezione più di quanto abbia dato a vedere negli ultimi anni.

Ecco il virus sottile che infesta la «storica» scaletta del concerto di Roma, e quasi emargina i passaggi obbligati nel repertorio (Born in the Usa, Dancing in the dark): le cover di Shout degli Isley Brothers, di Summertime Blues di Eddie Cochran; la riscoperta della brillantezza di un retro rock’n’roll anni ’80 come Stand on it, dimenticato da allora («Se perdi il controllo della situazione/ rimorchia una ragazza e vai a vedere una band di rock’n’roll»). Persino il bambino tirato su, sul palco, a cantare durante Waitin’ on a sunny day non fa dimenticare che la canzone «scritta nello stile di Smokey Robinson» stava per finire nel cestino della spazzatura e Landau ha convinto Springsteen a salvarla.

Alla fine il Boss sorride. Felice. Un po’ per mestiere, un po’ perché è andata bene. Un altro pezzetto si è aggiunto alla sua mitologia. Consegna a quattro generazioni di pubblico (dalle nonne ai nipotini sul passeggino, stanchi morti), un concentrato di arte popolare americana. Trasmette ancora – si spera – il suo senso politico e persino religioso. Se oggi sappiamo bene che «il futuro del rock’n’roll» era un paradosso, la nostalgia di un futuro, sappiamo anche che con la nostalgia (di tutto) dobbiamo imparare a convivere, anche grazie al medicine show di Springsteen. «Non sono un eroe/ l’unica redenzione che ti posso offrire, baby, è sotto il cofano sporco di questa macchina».

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