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La lunga anima di Sainko Namtchylak

La lunga anima di Sainko Namtchylak

Intervista L’artista russa torna il prossimo 22 gennaio con un nuovo album «Like a bird of spirit, not a face», realizzato insieme ai Tinariwen. «La mia musica - spiega - si lega alla cultura sciamanica, ho sempre voluto mescolare tradizione e contemporaneo»

Pubblicato quasi 9 anni faEdizione del 2 gennaio 2016

La voce di Sainko Namtchylak. Ascoltatela in Cyberia, doppio album in cui solo la voce è protagonista, senza alcuno strumento ad accompagnarla. Un disco difficile, lontano da noi nei suoi suoni. Eppure un disco che lascia ammirati, forse meglio sarebbe dire stupiti. Sainko si arrampica a voce nuda lungo le diciannove tracce complessive; scompone figure disegnate in un susseguirsi verticale di note acute, richiamate con un canto di incredibile profondità, avvistate sulla linea di un orizzonte remoto dove scorrono esili ma nette. Questa è la voce di Sainko Namtchylak, germoglio nato dalle radici della tradizione, dalla spiritualità dei riti sciamanici, dal dialogo tra Orienti e Occidenti; da una sensibilità capace di comprendere che un frammento di musica «estraneo» può divenire opera di ampio respiro.
La vita di Sainko Namtchylak. Occorre conoscerla, almeno nei suoi tratti essenziali. Poiché dentro i fatti di quella vita sono maturate le scelte e i cambiamenti di un cammino lungo ventisette album. È Sainko stessa a raccontarla al tavolo di un bar nel centro di Milano, città che più volte l’ha ospitata per un concerto o in un uno studio di registrazione, alla vigilia della pubblicazione del suo nuovo album dal titolo Like a bird of spirit, not a face, in uscita il prossimo 22 gennaio. Oggi Sainko vive a Vienna, ma ieri… Ieri era prima di tutto Pestunkova, villaggio della repubblica di Tuva, ai confini con la Mongolia, dove lei ha aperto gli occhi sul mondo. Lo ricorda, ci torna? La risposta affascina e sconcerta «Pestunkova non esiste più. Lì si estraeva l’oro, poi la miniera è stata chiusa. Forse esisterebbe ancora, magari abbandonato, Pestunkova, se non l’avessero sommerso, insieme alla miniera, sotto un lago artificiale. Nel 2010 sono tornata, in cerca del mio villaggio. Mi hanno detto ’Non c’è più, tutto è sott’acqua. Le uniche cose che puoi vedere sono le rovine delle vecchie case di legno’. Allora, accompagnata da alcuni sciamani, ho offerto cibo agli spiriti del luogo e ho disperso del latte nell’aria per dire ‘Sono qui, è qui che ho preso il latte da mia madre’. Sempre nel 2010, a Shagonar, vicino a Pestunkova, ho tenuto un concerto, e al termine è stato offerto un enorme rinfresco in mio onore dopo quarantacinque anni di lontananza».

I suoi genitori erano insegnanti. Hanno avuto un ruolo nella scelta di frequentare il conservatorio e poi intraprendere la carriera musicale?

Mio padre, allora commentatore di notizie estere per una televisione locale, dedicava a me e alle mie sorelle più piccole una parte della domenica. Noi bambine cantavamo e ballavamo con lui, mentre recitava poesie di sua composizione. Ascoltando una di queste poesie decisi che… Beh, devo tornare un attimo indietro nel tempo. Guardavo spesso il ponte sul fiume Enisej e nella mia testa pensavo ‘Un giorno quel ponte mi permetterà di andare veramente lontano da qui e canterò le mie canzoni’. Tra i doni di mio padre a mia madre c’era anche una piccola performance artistica. L’otto marzo del 1967 decisi che avrei attraversato il ponte sull’ Enisej. Finita la scuola, sposai un musicista rock di Mosca, il primo arrivato a Tuva per insegnare musica e formare una rockband. Mi prese come cantante. Nel 1976 nessuno parlava di Perestroika, e la Commissione della filarmonica di Tuva rifiutò l’abbinamento ‘rock e musica tradizionale’, bollandolo come propaganda capitalistica dell’Occidente. Rimasi incinta, ci trasferimmo a Mosca. La nascita di mia figlia contribuì alla decisione di divenire una persona istruita e così educarla meglio. Mi iscrissi al liceo artistico – musicale, poi ai corsi dell’Istituto di Gnessin, equivalente di un conservatorio. Nel 1986 partecipai a una competizione canora nazionale che si svolgeva a Krasnodar. Vinsi il secondo premio e fu l’inizio della mia carriera». Ascoltiamo Sainko, ad esempio nei brani di Seven songs for Tuva, quasi vent’anni sulle spalle, o di Who stole the sky?, 2003. La voce fa da guida a spartiti che odorano di jazz, di Africa, di blues, di pop erudito; che si lasciano assorbire e assorbono il repertorio popolare di Tuva.

Signora Namtchylak, lei è d’accordo con quanti segnano i confini della sua musica nell’avangarde jazz e nel pop rock, o forse trova questi confini troppo angusti?

Per quanto riguarda l’avangarde jazz, pur senza rinnegarlo, posso affermare che l’ho del tutto dimenticato. La mia musica si lega alla cultura sciamanica e al culto della preghiera. Volevo riuscire a mischiare le tradizioni più antiche con la musica contemporanea. E a cantare questa sorta di impasto. Ulteriore sfida interessante era partire dal genere popolare della tradizione sciamanica e delle canzoni che descrivono la vita quotidiana.

Estremi cronologici della sua produzione il primo album, «Lost Rivers», 1991, e l’ultimo, «Like a bird of spirit», not a face. Lo sono anche in termini creativi?

Lost Rivers ha rappresentato una ricerca di sicuro interesse, la definirei psico-acustica. Poi si è fatta man mano strada la scelta dell’improvvisazione. Ho iniziato a pensare che non esiste un confine tra improvvisazione e canzone folk. In tutte le culture, Africa, Asia, Sud America, ogni artista continua a interpretare la tradizione anche se usa una forma non tradizionale. Tutto sgorga sempre da quella fonte. Con i Tinariwen, per Like a bird of spirit, not a face, abbiamo improvvisato durante due giorni di jam session. Di fatto è stato l’incontro di una nuova generazione di musicisti interessati alla cultura antica. Un incontro avvenuto in una delle tante grandi città che ospitano club in cui musicisti africani conoscono musicisti mongoli, gli irlandesi i cubani o i brasiliani. E magari suonano melodie russe o moldave. La fusion stessa diventa molto spontanea, ognuno canta nella propria lingua, gli idiomi e gli strumenti più diversi si sovrappongono. È un repertorio poliritmico, la sua ricchezza sta nella forte divergenza degli stili.

Il blues rimane una presenza costante nei suoi lavori

Ecco, prendiamo appunto il blues. Ha una forma molto semplice e internazionale, che si ritrova in altre e lontane parti del mondo. Il nome blues è nato di recente, al contrario del mood del blues.

Le suona intonato il termine spesso utilizzato di ’contaminazione’, quali artisti ascolta?

A volte la gente, quando parla delle mie canzoni dice: ‘Ah, lei ricorda un pochino…’. Oppure ‘Questo autore ha un pochino di…’. Oggi è molto difficile creare melodie che non siano già state suonate. Ma esiste una ricerca sul colore delle voci e degli strumenti. La stessa nota può essere espressa in centinaia di modi diversi. Certo, quel che vedo nella musica contemporanea, nella world music e nel jazz è che si prova ad esplorare le differenti combinazioni di strumenti acustici e a creare l’elettronica in modo da sfuggire alla staticità di uno spartito. Mi piace ascoltare Thom Yorke (voce dei Radiohead, ndr), Tom Waits. Raccontano storie ordinarie con straordinaria semplicità. Waits rappresenta ogni volta una pièce teatrale con lo sfondo di una cittadina irlandese o americana.

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Sainko, ci regala un ritratto di Tuva?

«La prima cosa che ti colpisce è la vastità del cielo. Poi l’immensità dell’orizzonte e degli spazi aperti. Tutto questo avvicina alla natura e alla gente. Tutto questo appartiene ai canti della mia terra». Dalle vetrine del bar, Milano sembra all’improvviso più piccola e più grigia.

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