Cultura

La luce delle parole per svelare il «male radicale»

La luce delle parole  per svelare il «male radicale»Aharon Appelfeld

INTERVISTA Parla Aharon Appelfeld, uno dei maggiori scrittori in lingua ebraica. Evaso da un lager nazista, attinge nell’esperienza vissuta della Shoah la forza per guardare con rinnovata speranza a un possibile futuro dove neutralizzare i demoni del presente

Pubblicato circa 8 anni faEdizione del 18 agosto 2016

Aharon Appelfeld vive in Israele dalla fine degli anni Quaranta, ma sottolinea sempre le sue origini rumene. La sua famiglia, da sempre messa all’indice perché di origine ebraiche, viveva in una regione (la Bucovina) fino a quando fu deportata nei lager nazisti, dove quasi tutti i componenti furono assassinati. Lui, invece, è riuscito a evadere da un campo di sterminio. Per molto tempo ha vissuto come fuggiasco nei boschi, fino al momento in cui si è unito all’Armata Rossa. Con quella divisa ha combattuto i nazisti, ma poi a guerra finita ha deciso di andare in Palestina, ancora sotto protettorato britannico. Lì, in un kibbutz, ha studiato e cominciato a scrivere in ebraico, una lingua che ha subito amato al punto da diventare uno dei più importanti scrittori di lingua ebraica.

Nei suoi romanzi – gran parte dei quali pubblicati in italia da Giuntina, Feltrinelli e Guanda – i temi della Shoah e del «male radicale» tornano spesso, seppur filtrati dal pensiero di Martin Buber e Gershom Scholem, intellettuali che Appelfeld considera veri e propri maestri. Recentemente lo scrittore ha ricevuto in italia il premio Hemingway. Più che un’intervista quella con lo scrittore israeliano è stata una lunga conversazione.

Lei ha in comune con Edgar Morin la devastante esperienza traumatica della perdita della madre in tenera età: lei l’ha persa a nove anni, Morin a dieci. In che modo questa perdita ha influenzato il suo destino di scrittore?

Mia madre era sempre con me quando era viva. Eravamo insieme nel tempo della paura e nel tempo della gioia. La sua presenza mi faceva sentire di non essere solo, poiché lei mi avrebbe sempre aiutato ad alzarmi se fossi caduto e salvato dai pericoli. Questa sensazione non mi ha mai abbandonato. Anche quando sono diventato adulto lei ha continuato a essere con me. L’amore che sento per i miei genitori, i nonni e tutti quelli che avevo attorno durante la mia fanciullezza e che perirono durante la guerra è diventato una parte di me. Li sento ancora più vicini adesso rispetto a quando erano in vita. La morte non ci ha separati. Nei miei libri esploro la loro vita.

Un altro ebreo importante, Boris Cyrulnik, perse i genitori che vennero uccisi dai nazisti e fece molta fatica a sopravvivere. Nondimeno riuscì ugualmente a diventare uno psichiatra e a «tradurre» la sua capacità di capitalizzare le risorse interiori di cui disponeva nel costrutto della «resilienza», che viene considerato oggi un caposaldo dell’azione psicoterapeutica. Come può spiegare la sua resilienza nel superare gli enormi ostacoli che ha incontrato sul suo cammino?

Ho visto il male in tutte le sue forme. Il male è un’ombra scura, se ne sta sempre acquattato ma in tempi di rabbia e odio tende a gonfiarsi e a penetrare nelle nostre esistenze. Come possiamo fronteggiarlo? Tutto quel che possiamo fare è combatterlo, coltivare la speranza e accrescere la nostra luce. Nei miei romanzi desidero onorare coloro che hanno visto le tenebre ma non hanno mai rinunciato alla speranza.

Nel suo ultimo libro «To the Edge of Sorrow» (in uscita in Italia per Guanda nel gennaio 2017, con la traduzione di Elena Löwenthal) lei mostra che c’è un modo per combattere il male. A un certo punto, uno dei partigiani riconosce la casa dove abitava suo zio e scopre che è abitata da altre persone, che indossano gli abiti dei suoi parenti e che hanno bruciato tutti i loro libri. Benché si senta ardere di rabbia, il partigiano e i suoi compagni cercano di fare la cosa più giusta e onorevole: raccolgono un po’ di provviste e se ne vanno. Solo quando gli abitanti della casa sparano loro addosso li neutralizzano e incendiano la casa…

Sono convinto che vi siano sempre, da qualche parte, partigiani come questi, che fanno del loro meglio per non perdere la propria umanità, ad esempio leggendo libri. Martin Buber è stato il mio maestro, ho studiato con lui. In seguito, siamo diventati amici e abbiamo avuto interminabili discussioni nelle strade di Gerusalemme. Non ha mai avuto alcun legame con delle istituzioni religiose ma ha sempre parlato molto di religiosità, che è un sentimento forte e caldo che ci eleva. Le istituzioni religiose possono essere oscure e staccate dalla realtà, mentre la religiosità è intimamente connessa agli individui.

Martin Buber è molto citato da Tom Kitwood, autore di un importante libro su uno dei disturbi maggiormente fraintesi, «Riconsiderare la demenza» (Erickson), nel quale spiega che, se si guardano solo i sintomi, e si dimentica che i pazienti sono esseri umani prima ancora di essere «pazienti», non si è affatto psicologi o psichiatri degni di questo nome….

La religiosità è qualcosa che ciascuno di noi ha dentro di sé. Riveste un ruolo nell’individuo, consentendogli di connettersi con coloro che ama. Permette di elevarsi. L’uso che le grandi chiese di ogni fede fanno della religione è il vero pericolo. Esse dimenticano il vero scopo della religione, che è quello di elevare le persone.

Per molti studiosi la società contemporanea tende a dimenticare, a rimuovere il passato. Nel suo romanzo c’è il futuro (il piccolo Milio) e il passato (la nonna Tsirel). Possiamo dire che la letteratura possa servire ad uscire dall’oblio dell’eterno presente….

La religiosità come la letteratura non può risolvere i grandi problemi ma almeno possono renderci consapevoli dei danni che arrecano. Ci mette in contatto con il bene, con ciò che è delicato, come ogni arte. Quando ci sediamo ad ascoltare Bach in qualche modo cambiamo, diventiamo persone differenti. Cerco sempre di «salvare» l’umanità nel mio libro. La domanda è: che cosa possiamo fare? Come possiamo andare avanti? Dovremmo rinunciare? La risposta si trova nella comunità, che è responsabile per se stessa, per i suoi vecchi e per i suoi figli.

Un altro fatto molto commovente nel suo libro è che il piccolo Milio all’inizio non riesce a parlare ma, dopo che il gigante Danzig si prende cura di lui, alla fine del quarto capitolo riesce a dire le prime parole e pronuncia: «Cielo». Ogni volta che il bambino dice una parola nuova, il gigante è felice perché sta portando a termine la sua missione…

Il gigante riveste un ruolo nel salvare l’umanità, per esempio rubando vestiti. Si devono avere vestiti caldi e naturalmente libri. Libri di diverse discipline e scritti in lingue diverse.

Il protagonista ha una memoria molto vivida di «Delitto e castigo» di Dostoevskij, ma quando finalmente ne trova una copia se ne sente meno attratto, probabilmente a causa della situazione in cui si trova. Che cosa ha significato questo libro per lei?

Quando l’ho letto ero molto giovane, l’ho portato davvero con me nel bosco. Semplicemente mi ispirava. Anche Kafka è uno scrittore che mi ha influenzato. Era una persona profondamente religiosa, nonostante tutto. Sapeva che il mondo era pieno di demoni. Basta pensare all’Olocausto, alla guerra, il mondo è pieno di demoni. Spiegare le cose è una modalità molto debole. Non si dovrebbe spiegare se stessi, bisognerebbe mostrare. Se lei parla del male, lo mostri! Lo mostri, non lo spieghi!

ABBONAMENTI

Passa dalla parte del torto.

Sostieni l’informazione libera e senza padroni.
Leggi senza limiti il manifesto su sito e app in anteprima dalla mezzanotte. E tutti i servizi della membership sono inclusi.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento