Cultura

La luccicanza dei posti, anche quando inesistenti

La luccicanza dei posti, anche quando inesistentiUn'opera di Cao Fei

GEOGRAFIE SENTIMENTALI Libri, storie e leggende. Fluttuando tra arcipelaghi e abissi, palazzi sotterranei e metropoli subacquee. Dall’Oceania di Orwell alla Macondo di Marquez, passando per il castello interiore di Teresa d’Avila. Non sapremo mai quanto dista la Crosby di Elizabeth Strout dalla città di K. di Ágota Kristóf, pure cercandone la suggestione. Un denso percorso di letture sulle tracce di luoghi letterari e insoliti mappati da un dizionario e un atlante

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 27 marzo 2018

Per raggiungere Oz bisogna attraversare il deserto, e sono le strade di polvere le uniche che sapranno condurci alle rovine di Teufelsberg, al confine con la vecchia Berlino Est. Solo chi ha avuto il coraggio di inoltrarsi nelle crepe che sentieri come questi lasciano tra noi e il mondo conosce la forza con cui la voragine che da essi si spalanca ci richiama.

«È S.Thala sino al fiume, e dopo il fiume è ancora S.Thala» scrive Marguerite Duras a proposito della città situata in un punto imprecisato delle coste inglesi che ricorre nei suoi romanzi. Dai posti che non esistono difficilmente si torna indietro. Servirebbe la prudenza delle briciole di pane, la pazienza del collezionista di conchiglie – d’altronde, per trovarle, le cose bisogna chiamarle per nome.
Nel Dizionario dei luoghi letterari immaginari (Utet, pp. 672, euro 24) la studiosa Anna Ferrari prova a fare qualcosa di simile, raccogliendo i nomi e le storie dei luoghi d’invenzione della letteratura occidentale, e indicizzandoli secondo l’opera citata per autore, e per tipologia. Un filo di lana che ci permette di ricominciare il viaggio anche quando sull’ordine alfabetico vince il disordine della lettura. Si procede così per salti quantici e slanci d’intuizione, dall’isola di Rokovoko di Moby Dick alle città invisibili di Italo Calvino, dall’Oceania di Orwell alla Macondo di Garcia Marquez, passando per le cime tempestose di Emily Brontë, il giardino dei ciliegi di Anton Cechov, quello segreto di Burnett, giù nel buco fino al paese delle meraviglie di Lewis Carrol, con Mary Poppins lungo la Cherry Tree Lane di Pamela Lyndon Travers, dall’East al Weast Egg dell’America del grande Gatsby di Fitzgerald, fino alla Flatlandia di Edwin Abbott: un mondo bidimensionale dove abitano soltanto figure geometriche e linee rette. Ma non si tratta esclusivamente di viali e città, paesi e giardini. Ci saranno anche i bar, le province, i pozzi, i quartieri. 650 pagine sono poche per tornare dappertutto, Ferrari lo fa seguendo dichiaratamente il proprio gusto e tre criteri: che non si tratti in alcun modo di luoghi reali, che esista un toponimo associato a ciascuno, che ognuno dei luoghi corrisponda a un’opera letteraria d’importanza riconosciuta.

NON SOLO TERRE mitologiche e regioni fantascientifiche, dopo la pianura di Lete, le paludi senza fondo dei poemi del ciclo arturiano, prima ancora di raggiungere la Hogwarts di Joanna Rowling, l’Earthsea di Ursula Le Guin, incontreremo la Highbury di Jane Austen, l’isola della gita al faro di Virginia Woolf, e procedendo avanti fino ai nostri giorni la Sicilia di Camilleri, la Dolle di Andrea Zanzotto, l’Acqua Traverse di Niccolò Ammaniti.
Territori che non sono mai esistiti ma potrebbero benissimo, o che si discostano dai luoghi segnati sulle carte soltanto per il nome. Lontani nel tempo o nelle possibilità, i luoghi letterari immaginari sono sempre altrove, anche rispetto agli spazi, ci fa notare Ferrari.

E così avanziamo fluttuando tra gli arcipelaghi e gli abissi, i palazzi sotterranei e le metropoli subacquee, un universo parallelo che inizia dalla porta nel muro di Herbert George Wells e finisce all’Isola non trovata di Gozzano. Nel mezzo, un labirinto d’interni e geografie dei sentimenti: dalla casa che muta di Michael Ende al castello interiore di Teresa d’Avila. Forse aveva ragione Melville a dire che i veri luoghi sulle carte non si trovano, non sapremo mai quanto dista la Crosby di Elizabeth Strout dalla città di K. di Ágota Kristóf. Eppure basterà sfogliare l’Atlante dei luoghi insoliti e curiosi (Rizzoli, pp. 224, euro 25) per ricordarci che a volte è la realtà a nascondere quello che difficilmente avremmo immaginato.
Non è un caso che i paesi spettrali, gli edifici abbandonati, le terre sommerse che lo scrittore inglese Travis Elborough rincorre in questo stradario dell’impossibile siano corredati dalle mappe disegnate dal cartografo Alan Horsfield e da fotografie inedite in bianco e nero che hanno tutta l’impressione di volerne dimostrare l’esistenza.

PERCHÉ, VA BENE la cima di Teufelsberg – la collina costruita a ridosso della vecchia Berlino Est con le macerie della città, un tempo punto d’ascolto privilegiato per intercettare conversazioni e discorsi, e adesso ridotta in rovina – ma altrimenti chi crederebbe a un cimitero delle bambole impiccate o a una foresta che conta il numero più alto di suicidi?
E invece, a venticinque chilometri dal centro di Città del Messico, si trova davvero un’isola che ha resistito all’urbanizzazione che ospita un nugolo di bambole impiccate ai rami. «Accanto a una baracca di legno, barbie denudate e appese per i capelli si contendono lo spazio con altri pupazzi di plastica e una serie di sdrucite e inquietanti bambole di pezza» racconta Elborough.

UNA STORIA INIZIATA quando l’unico abitante dell’isola, Don Julian Santana Barrera, morto nel 2011, il giorno dopo essersi imbattuto nel cadavere di una ragazzina sulla riva di un canale di zona, trovò una bambola nello stesso punto. E dopo averla appesa a un albero come talismano contro il male ne trovò un’altra ancora.
L’origine di un’ossessione sfociata in un pellegrinaggio di curiosi che di tanto in tanto si recano sul posto per andare ad appendere nuove bambole, mentre le più vecchie marciscono e cadono a terra. È a migliaia di chilometri da qui, dall’altra parte del Pacifico, precisamente alle pendici del Monte Fuji, in Giappone, che si trova la foresta di aokigahara.
«Un cartello posto al suo ingresso invita chi entra a pensare alla propria famiglia» si legge nella descrizione che ne fa Elborough, perché dopo il Golden Gate di San Francisco questo è il secondo luogo al mondo per numero di suicidi. Tra i cinquanta e i cento cadaveri vengono recuperati ogni anno da questo mare di alberi (dal giapponese Jukai, nome con cui pure viene indicata la foresta), un intreccio di rami e radici interrotto da spiazzi rocciosi, dove è facile perdersi e restare impigliati per giorni se si considera che i depositi magnetici di ferro situati nel sottosuolo interferiscono con reti cellulari e segnali Gps.

Quella che alcuni chiamano la foresta dei demoni compare anche nel romanzo Kuroi Kaiju («il nero mare di alberi») di Seicho Matsumoto, pubblicato in Giappone nel 1960, che si conclude con il suicidio di due innamorati nella foresta di aokigahara. Un fenomeno, quello delle morti nella foresta, spiega Elborough, già registrato nell’antichità quando, durante i periodi di carestia, i bambini più deboli, i vecchi e i malati venivano abbandonati qui perché costituivano un peso per le famiglie.

SONO I FANTASMI di questi bambini antichi a richiamare i suicidi di oggi secondo le credenze locali. Figli di fantasie rimaste a lungo inconfessate o generati dalla dimenticanza, potremmo forse dire che i posti che non esistono sono i luoghi che qualcuno ha sognato o che nessuno vede. Un’invenzione in ogni caso.
E poco importa la luccicanza che emanano, la posizione che occupano nel sistema solare. Che siano città immaginarie, cimiteri o edifici finiti in malora, è soprattutto per il buio che li sovrasta che ne possiamo intuire i contorni. Di tutti i mondi possibili, i posti che non esistono appartengono alla notte.

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