Alias Domenica

La lirica delle Olimpiadi al saldo della lirica

Pindaro Visionarietà, formalismo, regia delle performances, meta-poesia: leggere gli epinici dell’«aquila di Tebe» senza De Coubertin

Pubblicato quasi 11 anni faEdizione del 12 gennaio 2014

Vatti a fidare dei canoni. Nessun greco avrebbe mai creduto che Pindaro, nella cultura o nella scuola d’oggi, sarebbe finito surclassato non solo da Saffo (passi pure), ma anche da qualche elegiaco o giambografo. Proprio lui, «dei nove lirici il principe», secondo Quintiliano; lui, «l’aquila di Tebe» che destina i suoi imitatori alla fine ingloriosa di Icaro, secondo Orazio. Certo, Roma ebbe proprio in Orazio il suo Pindaro, come poi la Francia in Ronsard, la Germania in Hölderlin, e l’Italia in d’Annunzio. Ma è futile ripetere, come ancora si fa, che la fortuna di Pindaro è immensa, che Pindaro – come vuole l’Harold Bloom del Canone occidentale – «rimarrà sempre l’archetipo della compiutezza letteraria». È falso. Pindaro oggi non si legge, né sui banchi né sotto i banchi. Saffo sì. E gli altri lirici suonano a noi ben più «lirici»: fortuna loro che la storia ne ha fatto frammenti. Basterebbe un computo delle traduzioni proposte o riproposte al lettore italiano negli ultimi vent’anni: tre, quattro appena, contro la mole delle versioni saffiche o delle antologie «liriche» in genere, dalle quali Pindaro, ironia della storia, è per lo più escluso. Oggi una garanzia di notorietà viene a Pindaro solo dal misterioso «volo» che porta il suo nome, in un’espressione che si intende e si usa ormai, come attesta il web, nelle accezioni più sorprendenti: da «lungo sproloquio» a «rifiuto allucinogeno della realtà» (sic).

La tradizione, certo, ha i suoi carsici meandri, le sue riemersioni inattese. Ma anche le sue spietate ritorsioni. Prendiamo il celebre: «ottima è l’acqua». Questo «indimenticabile» incipit (la definizione è di Wilamowitz) è divenuto fra l’altro, nel corso dei secoli: un perfetto graffito pubblicitario da incidere sulle pareti delle terme, come l’Antologia Palatina ci dimostra; un rompicapo esegetico per commentatori in cerca d’allegorie; una superlativa occasione per sberleffi parodici (basta aggiungere che il vino è migliore, o farne uno sfottò per una dama troppo truccata); un verso di Pascoli, e poi uno di Sanguineti; un motto scolpito nella toilette blu del Vittoriale dannunziano; un titolo di Primo Levi, e una battuta di Nino Manfredi in un cortometraggio di Scola; infine, un ricorrente slogan per acque minerali, ovvero (e chiudiamo ad anello) termali. Povero Pindaro. Ma non c’è da farne un dramma: c’è da farne un test. La refrattarietà contemporanea alla poesia pindarica è istruttiva: molto dice di cosa noi intendiamo per «lirica» (nozione ignota all’antichità, almeno nel suo valore onnicomprensivo). La critica ha via via tentato, più o meno consapevolmente, di regolare Pindaro, il «principe» dei lirici, sulle visioni dominanti del genere: il Romanticismo ne ha fatto un ispirato visionario, e già per Ronsard Pindaro era il «poeta della Natura», cioè l’anti-Petrarca; il crocianesimo ne ha fatto un intuitivo, il New Criticism un abile bricoleur di forme convenzionali, la filosofia (via Hölderlin, ma riletto da Heidegger) il poeta-pensatore per eccellenza; oggi, in tempi di post- e di meta-, se ne enfatizza volentieri la consapevolezza d’artista, se ne riscopre l’autoriflessività poetica in bilico fra modelli da riciclare e antimodelli da rifiutare. Ma questo non basta a far risorgere Pindaro. Forse, per certi autori che furono e più non sono del canone, è plausibile la profezia che qualche anno fa, discorrendo appunto di lirici, Bruno Gentili e Carmine Catenacci ripresero dal George Steiner di Vere presenze: come in una nuova Alessandria, presto il canone andrà occultamente reinventato, e «il solo commento ammesso sarà quello “filologico”». Può essere.

Certo è che proprio a Gentili, a Catenacci, a Pietro Giannini e a Liana Lomiento si deve l’ultima, splendida edizione – con commento filologicissimo, ma non solo – delle Olimpiche di Pindaro (Milano, Fondazione Valla-Mondadori «Scrittori Greci e Latini», pp. 736, euro 30,00 ): cioè della raccolta che apriva l’edizione alessandrina del poeta, e la cui prima ode – il «più bello dei canti», secondo Luciano di Samosata – era a sua volta aperta dal mirabolante «ottima è l’acqua». È un libro a lungo atteso, che va ad aggiungersi alle Pitiche e alle Istmiche della stessa collana, rispettivamente 1995 e addirittura 1982. I tempi editoriali non sorprenderanno gli specialisti, sicuri di trovare in quest’opera un commento ricchissimo, durevole e vocazionalmente «canonico», firmato com’è da alcuni fra i maggiori esperti di lirica in generale e di lirica pindarica in particolare; e gli specialisti vi troveranno anche novità consistenti sul piano editoriale, metrico, esegetico. Ma cosa troveranno, in questo Pindaro smagliante, i lettori non specialisti? Vi troveranno la celebrazione di un atletismo olimpico che nulla ha del fair play moderno, nulla del pio pacifismo idealizzato dalle Olimpiadi del barone De Coubertin (in attesa di Sochi 2014, può essere istruttivo); vi troveranno postille attente, e sempre limpide, ai realia mitici e rituali che rendono oggi così indigesta, cosi poco «lirica», la lirica pindarica, sicché forse spaventeranno meno le evocazioni di «Tlepòlemo guida ai Tirinzi» o di «Menezio, il figlio d’Àttore e di Egina»; vi troveranno un Pindaro che è sintesi dei tanti Pindaro del passato, il visionario e il formalista, il pensatore e il meta-poeta, ma anche l’orchestratore di performances e lo spregiudicato pennivendolo, in un quadro che non cela ma rivela l’alterità irriducibile della poesia pindarica. Ma il lettore troverà qui, naturalmente, anche l’«acqua»: e la troverà naturalmente «ottima». Impresa ingrata, tradurre Pindaro: perché per il traduttore il testo è «solo», e non c’è postilla che tenga; perché nessun paradigma letterario contemporaneo sostiene più le versioni liriche, tramontati ermetismi e post-ermetismi, e men che meno le traduzioni di Pindaro, che non a caso Quasimodo lasciò in pace, preferendogli addirittura Erinna, Praxilla o Melanippide.

Le traduzioni sono qui firmate da Gentili, un maestro indiscusso, un grecista che non ha mai smesso di riflettere sui doveri del traduttore dalle lingue antiche: un traduttore che, specie quando nessun credibile analogo gli è offerto dalla cultura del suo tempo, ha responsabilità decuplicate. E davvero con Pindaro nella sua interezza si sono misurati in pochi, nel Novecento italiano: qualche serial translator alla Romagnoli, certo; Leone Traverso, nel ’56, quando ancora erano ammessi preziosismi dannunziani; e quindi Enzo Mandruzzato, che scelse una chiave evasiva, omissiva, epurativa, quasi a sancire che Pindaro si traduce, sì, ma solo spindarizzato. Si chiedeva tempo fa Luigi Lehnus, anch’egli traduttore delle Olimpiche, se oggi «la traduzione possa essere altro che filologica». Forse no, proprio come i commenti: mezze misure e compromessi, in assenza di modelli plausibili, non tengono. E così procede Gentili, consapevolmente limitandosi – come egli ha scritto in altra sede – a «lasciar trasparire» qualcosa dello stile pindarico. Traverso parlava di «arieggiare». Siamo via via più lontani, e per forza, da ogni pretesa romanticamente ricreativa. E che fare dell’«acqua ottima»? La definizione suona a noi, non c’è scampo, gustativa, perché il latinismo non si sente più. «Sovrana è l’acqua» rendeva Traverso, evitando cortocircuiti. Ma «ottima» traduceva già, al principio del Settecento, Muratori. E «ottima» hanno poi reso quasi tutti. Alla tradizione ha pagato il suo prezzo Pindaro; naturale e giusto che lo paghi anche il traduttore di Pindaro. Certo è che la tradizione, magari carsica, procede.

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