La lingua dimenticata che muove le montagne
Cinema Capitalismo e sentimenti, come cambiare senza distruggersi? Jia Zhangke racconta in «Mountains May Depart»le trasformazioni della Cina immaginando i conflitti futuri. In gara sulla Croisette, arriva ora nel cartellone di Cannes a Roma e a Milano. Intervista al regista
Cinema Capitalismo e sentimenti, come cambiare senza distruggersi? Jia Zhangke racconta in «Mountains May Depart»le trasformazioni della Cina immaginando i conflitti futuri. In gara sulla Croisette, arriva ora nel cartellone di Cannes a Roma e a Milano. Intervista al regista
Go West. Nel musical dei ragazzi cinesi anni Novanta i Pet Shop Boys hanno sostituito le canzoni di Mao, il ritmo risuona come una liberazione e insieme un imperativo: Go West, l’orizzonte della nuova Cina che cambia. Siamo a Fenyang, la città dove Jia Zhangke è nato, e dove torna per questo suo Mountains May Depart, in concorso al Festival di Cannes, e nel cartellone di Cannes a Roma (10-15) e a Milano (12-18). Non lo perdete perché è un film importante e intenso, uno dei migliori visti nella selezione ufficiale, dimenticato nel Palmarés (pessimo) ma questa è un’altra storia. Due ragazzi amano la stessa ragazza, Zhao Tao, musa del regista, in Cina tutto si muove rapidamente, l’obiettivo è diventare ricchi e potenti. Uno dei due, Zhang, mafiosetto e rampante ha il mito dell’occidente come modello supremo del capitalismo. Sarà lui a sposare la fanciulla, mentre l’altro rimarrà un proletario minatore fino a mangiarsi i polmoni nel carbone.
I due hanno un figlio che Zhang chiama Dollar. Gli anni passano, l’amore finisce, arrivano cattiveria, amarezze, disillusioni, solitudine. Resiste l’amicizia tra la donna e il vecchio e malato innamorato anche se impolverata come il cartoncino di invito alle sue fastose nozze. Intanto il futuro è già qui, il futuro è dall’altra parte dell’oceano, quello fantastico che avevamo immaginato non esiste, ma forse lo sapevamo già. Rimangono solo un ragazzo rabbioso e una donna sola che prepara ravioli al vapore e continua a ballare: Go West.
Incontro Jia Zhangke qualche giorno dopo la proiezione a Cannes. Ci conosciamo da tanto, dal suo primo film, Pickpocket, alla fine degli anni Novanta. Anche lui è cambiato come la Cina, ma soprattutto cambia a ogni film il suo cinema. Riconoscibile nella poetica e sempre con uno scarto, con la capacità speciale di un «peccaminoso» tocco d’autore che sa sorprendere senza tradirsi. Sorride: «Mountains May Depart è un film molto vicino alle mie esperienze personali. I miei film precedenti esploravano le relazioni tra gli individui, la società e l’ambiente, questa volta il punto di partenza è una storia d’amore. Forse per questo ho pensato sin dall’inizio che l’elemento più efficace su cui lavorare era il tempo. Osservandolo scorrere si riesce a capire come cambiano i rapporti umani».
Il film disegna uno spazio interiore e uno esteriore che appaiono per i personaggi in un conflitto anche molto doloroso. È questo che hanno provocato le trasformazioni della società cinese?
Ho 45 anni, sono più maturo di quando ho iniziato a fare film, e posso dire che il futuro è la conseguenza di quello che si fa adesso, è determinato dalle decisioni che si prendono negli anni prima. I tre momenti in cui vediamo i protagonisti, giovani, adulti e anziani, possono raccontare una storia d’amore. Ma non è quello che cercavo. C’è qualcosa di dolce nelle illusioni e nei sogni che negli anni cambia come intorno cambia la società e il modo di esprimersi, e finisce per dargli un sapore amaro. Questa trasformazione si può rendere visibile attraverso il passare del tempo, della realtà intorno: è il mondo che cambia in una storia d’amore.
Nel tuo futuro prossimo, il 2025, a cui mancano in fondo una manciata di anni, ritroviamo Dollar ormai ragazzo. Cresciuto in Australia non parla una sola parola di cinese, e per comunicare col padre usa il traduttore on line.
I cinesi da anni hanno cominciato a lasciare il Paese per stabilirsi un po’ ovunque. Le nuove generazioni cresciute all’estero non parlano quasi più cinese. Per farti un esempio: i figli delle famiglie che sono emigrate in Nord America o in Australia parlano solo inglese, e questo crea una distanza rispetto ai genitori che al di là della lingua in sé è molto più profonda. La mancanza di conoscenza della lingua madre, infatti, determina la perdita di un spazio culturale comune del quale c’è bisogno per mantenere un equilibrio, e crescere senza sentirsi come accade al giovane protagonista del film del tutto estranei alle proprie origini. Succede sempre più di frequente che nelle famiglie di emigranti soltanto i più anziani parlano cinese, i giovani non riescono a capirli, devono ricorrere alla traduzione. Il paradosso è che può capitare di averne bisogno anche per parlare col proprio padre, che magari vive in America, fa affari sempre aiutato dal traduttore, e perciò non ha imparato l’inglese.
Hai detto che stavolta il racconto della Storia si snoda nel vissuto dei tuoi protagonisti. Anche nei tuoi film precedenti al centro ci sono sempre le esperienze private dei personaggi.
È vero nel senso che non mi piace mai generalizzare, il mio primo film mostrava una fase di cambiamento radicale della società cinese attraverso la figura di un ragazzo che rifiutava di adattarsi al «nuovo» (parliamo di Pickpocket (Xiao Wu), 1998, ndr). Da allora ho sempre preferito ricondurre narrativamente il sentimento contemporaneo a dei personaggi e alle loro esperienze. Stavolta però volevo raccontare soprattutto le emozioni dei tre protagonisti, in un certo senso è come se la prospettiva si fosse rovesciata: è la loro storia d’amore che riflette la Cina contemporanea. Vivere in un luogo dove i cambiamenti economici sono così rapidi e così netti influisce inevitabilmente sulle relazioni tra le persone. Anche per questo ho voluto mostrare come il presente determina il futuro attraverso la figura del figlio che non parla più il cinese, e non riesce neppure a ricordare sua madre. Il buddismo divide la vita umana in quattro tappe, la nascita, la vecchiaia, la malattia e la morte. Tutti dobbiamo attraversarle, e poco importa quanti soldi si hanno, quanto si è potenti: non si può sfuggire al destino. E dunque se le «Montagne possono spostarsi», le relazioni possono durare.
Come hai costruito visivamente il passaggio del tempo? I personaggi li vediamo crescere e invecchiare, con loro però anche il paesaggio cambia, e così la grana dell’immagine.
Ho utilizzato materiali documentari che ho girato negli anni. All’inizio non sapevo bene in che modo avrei strutturato la narrazione, sapevo solo che doveva basarsi sul passaggio del tempo. Per questo ho ripreso quel vecchio girato integrandolo nelle parti nuove con gli attori. Anche la tecnologia è cambiata moltissimo, cosa che mi ha permesso di visualizzare le trasformazioni da un decennio all’altro. Nel ’99 ho girato nel mascherino 1.33:1 della mia prima cinepresa digitale; per il capitolo del 2014 ho usato l’1.85:1, e per quello del 2025 il 2.39:1. Non tutto fa parte dei miei archivi, per il 2014 ho usato del footage industriale: l’immagine «vintage» restituisce l’atmosfera di ogni periodo.
La canzone del film è «Go West» dei Pet Shop Boys. Perché?
Verso la fine degli anni Novanta la disco ha raggiunto in Cina il massimo della popolarità, andavamo nei locali ogni fine settimana per scatenarci e infrangere ogni limite: i cinesi sono piuttosto repressi. Go West era una delle nostre hit più eccitanti. La musica determina moltissimo la mia memoria, anzi direi che guida la mia immaginazione.
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