Cultura

La lingua della nuova poesia araba che tesse i versi della rivoluzione

La lingua della nuova poesia araba che tesse i versi della rivoluzione«Exit of Shirin & Farhad», di Babak Kazemi

SCAFFALE A proposito dell’antologia poetica «In guerra non mi cercate» (Le Monnier)

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 25 aprile 2019

È un verso del poeta curdo-siriano Marwan Ali a dare il titolo al volume In guerra non mi cercate. Poesia araba delle rivoluzioni e oltre (Le Monnier università, pp. 216, euro 16). Curata da Oriana Capezio, Elena Chiti, Francesca M. Corrao e Simone Sibilio è una raccolta unica nel suo genere: un’antologia di opere, edite e inedite, pubblicate in italiano e arabo, che mette insieme le voci di 46 poeti e poete provenienti dal Mashreq, Maghreb, Egitto, Iraq, Golfo e dai luoghi della diaspora araba. Appartenenti a generazioni e storie diverse, gli autori e le autrici selezionate hanno in comune l’aver scritto una storia poetica degli anni 2010 al 2018, un momento di grandi sconvolgimenti per la regione.

RIVOLTE, rivoluzioni, guerre, restaurazioni, processi di democratizzazione, speranze, disillusioni si sono susseguite in un tumulto di emozioni e di eventi. Ma i testi selezionati vanno anche oltre i paesi investiti dall’ondata rivoluzionaria e presentano una lettura privilegiata della realtà geopolitica attuale. Raccontare il tempo presente e quello passato è stata, nel corso dei secoli, una funzione essenziale della poesia, che ha sempre avuto uno statuto speciale nella storia e nella cultura araba. «La poesia rappresenta il diwan al-‘arab, cioè l’archivio storico della vita di questo popolo che individua nella figura del poeta (sha‘ir) la memoria collettiva – scrive Oriana Capezio -. Il poeta arabo compone per la propria gente e in qualche misura il pubblico ne è partecipe».
Durante le manifestazioni del 2010-11 nelle piazze, nelle strade, sui muri riecheggiavano i versi dei grandi poeti arabi, come il tunisino Abu l-Qasim al-Shabbi (1909-1934) e il palestinese Mahmoud Darwish (1941-2008). Tale è stata la forza della poesia nel corso delle proteste che lo scrittore marocchino Tahar Ben Jelloun in La rivoluzione dei gelsomini (Bompiani, 2011) ha scritto che i dittatori dovrebbero leggere di più i poeti per capire gli umori dei loro popoli. La poesia, la letteratura, l’arte sono il barometro delle società arabe; strumenti potenti della memoria. Narrando le storie dei vinti, dei subalterni, diventano sassi lanciati negli ingranaggi delle narrazioni egemoniche dei vincitori. I dittatori arabi hanno sempre temuto gli artisti e le artiste. Tanti sono stati posti alla sbarra nei tribunali, rinchiusi nelle carceri, perseguitati nelle sale di tortura. Nell’antologia In guerra non mi cercate, si incontra il nome di Mohamed Sghaier Ouled Ahmad (1995-2016): perseguitato prima nella Tunisia di Bourghiba e poi in quella di Ben Ali. Per anni nelle sue poesie aveva pronosticato il sollevamento popolare contro la tirannide e, quando la rivoluzione del 2010-11 è scoppiata l’ha celebrata nei suoi versi. In La poesia della farfalla ricorda Mohamed Bouazizi, un venditore ambulante, stanco dei soprusi delle autorità e della crisi economica, che dandosi fuoco ha fatto da detonatore allo scoppio delle proteste in Tunisia e nel resto della regione. Bouazizi era un giovane uomo come tanti, una persona ordinaria. I protagonisti e le protagoniste della poesia del nuovo millennio, differentemente dalla poesia araba del ’900, «non sono più i mitici leader politici del passato, esaltati da Shawqi all’inizio del secolo scorso o dai cantori di Nasser negli anni Cinquanta, e neanche i grandi intellettuali», scrive Francesca Corrao.

Sono persone comuni, «ordinary people», per dirla con Asef Bayat, che dall’inizio degli anni 2000 hanno rivitalizzato la cosiddetta «Arab street», e che in queste settimane stanno scrivendo la storia in Algeria e Sudan. Sono giovani, ma anche adulti, anziani, uomini e donne. E le immagini di donne che oggi la poesia ci restituisce spesso rompono con l’iconografia classica della letteratura nazionalista e patriottica araba del Novecento che ha incastonato e imprigionato l’immagine femminile in quella di donna-madre, donna-patria.
L’enfasi è posta, come sottolinea Elena Chiti, sulla vita quotidiana, la resistenza dei piccoli gesti, la costruzione del sé. Se l’egiziana Asmaa Yassin scrive: «Sono stanca di discutere dei prezzi, / di ogni cosa»; la tunisina Sonia Ferjani le risponde idealmente, affermando: «Sono una che costruisce / le mie dita sono ruvide/ le mie unghie sono spaccate come una pentola di latta. / Non risparmio nulla di me».

A QUESTO CAMBIO di soggetto poetico, si affianca un cambio di registro linguistico. I poeti e le poete del nuovo millennio «esplorano nuovi motivi, idee, forme e timbri – sottolinea Simone Sibilio – distanti da una certa versificazione declamatoria o militante che ha animato la poesia araba del secondo Novecento». La lingua si fa complessa, dolorante, difficile da decifrare, proprio come il tempo storico che prova a raccontare. Una dimensione di spaesamento, quasi come di veglia tra sogno e realtà spesso prende il sopravvento nei versi. Non ci sono balsami per il dolore della guerra, la violenza della repressione, la frustrazione delle disillusioni che hanno seguito le rivolte del 2010-11, l’amarezza per chi continua a partire, a qualunque costo, alla ricerca di un futuro migliore. Le poesie della raccolta In guerra non mi cercate non offrono scappatoie facili, partecipano e esprimono la complessità del tempo in cui sono prodotte, ne registrano i tumulti ma anche i silenzi che si strozzano in gola.

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