Recentemente, mi è capitato di vedere alla tv un film che si chiama L’uomo dell’anno, interpretato da Robin Williams. È un film americano del 2006 e racconta di un popolare conduttore di un talk-show politico-satirico, che si candida alla Presidenza degli Stati Uniti e vince. Il voto si svolge in forma elettronica grazie a un innovativo software. Una ragazza che lavora per l’azienda che lo ha prodotto, scopre che la vittoria è dovuta a un bug del programma.

E ne informa i suoi capi, i quali insabbiano la notizia. Ma il nuovo presidente, informato dalla ragazza, denuncia l’errore in una trasmissione in diretta e rivela che, sedendosi alla scrivania della Sala Ovale, ha capito che la sua vocazione non è il potere ma la satira del potere. Inutile spiegare perché questo film mi ha colpita e la storia mi è sembrata così familiare. Anche da noi un comico che faceva satira politica si è candidato alla conduzione del paese, ha creato un partito e questo partito (formato dal voto elettronico) è finito alla guida del paese.

Da noi non c’è stato nessun provvidenziale ripensamento, nessuna ragazza si è accorta di un bug nel sistema, o se lo ha fatto, la sua voce non è arrivata al conduttore, o, se gli è arrivata, non gli ha fatto fare marcia indietro. Eppure il bug c’era e c’è ancora. E non si tratta di un errore in un codice di due lettere, ma nel nostro sistema linguistico. Come Tom Dobbs, il comico del film, anche il nostro comico si è conquistato la fama con battute scurrili e insolenze contro i politici, anche lui parla una lingua ‘che il popolo capisce e in cui si riconosce’.

L’errore, il bug, è di tipo (non a caso) rousseauiano. Jean-Jacques Rousseau, filosofo svizzero del XVIIIº secolo, criticò la civiltà come causa di tutti i mali ed elogiò la natura, depositaria delle qualità originarie di un’umanità innocente, e la figura del ‘buon selvaggio’, che, appena uscito dalle mani del Creatore, non è ancora stato corrotto dalla civiltà, dalla cultura e dalla conoscenza. Non è il caso ora di spiegare il pensiero di Rousseau, ma è evidente quanto sia facile semplificarlo. Ed è qui il bug: nella ‘semplicità’. Nel credere cioè (come fa o finge di fare il film americano) che la semplicità sia in sé ‘buona’, ‘onesta’ e ‘ignara’.

Che ‘parlare la lingua del popolo’ equivalga a dire la verità in tutta innocenza. Che le battute scurrili di un leader lo riportino alla ‘natura umana’, che è buona in sé, non ancora traviata e corrotta da professori e politici. Così questo nostro comico ha finito per portare al governo un uomo ancora più scurrile di lui, più rozzo e brutale, che parla la lingua della Curva Nord, piena di odio e arroganza.

Una lingua che riscuote il plauso di gente disabituata alla distinzione fra vero e falso, fra cultura e mistificazione. Mentre questa cosiddetta ‘lingua del popolo’ non è né semplice né innocente, ma è una lingua artefatta, mistificatrice e violenta, usata da chi vuole il potere, non di fare, ma di sopraffare. Una lingua senza radici e senza speranza. E non è ‘il popolo’ a identificarsi con lei, ma una classe sociale che periodicamente affiora, portata a galla dalla paura e dal risentimento. Con la quale bisognerà ricucire l’ordito delle parole, né semplici né complesse, ma autenticamente comuni.