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La lingua batte dove l’avverbio duole

La lingua batte dove l’avverbio duole

Habemus Corpus C’è molta differenza fra stravolgere volutamente le regole grammaticali per inventare un linguaggio, rendere un personaggio veritiero, un resoconto efficace e sbagliare un congiuntivo per sciatteria

Pubblicato circa un anno faEdizione del 19 settembre 2023

«Di questo ne abbiamo già parlato», «La vittima è uscita fuori dal locale con un’amica», «La signora è entrata dentro con il cagnolino», «Preferisce che glielo porto adesso o dopo?».
Se alle elementari avessi scritto o detto frasi così, la mia maestra, l’emerita signora Rabaglia, avrebbe fatto occhiacci o impugnato la penna rossa. Adesso inciampi grammaticali tanto evidenti li senti a ogni piè sospinto, detti o scritti anche da laureati che, insomma, le regole della grammatica dovrebbero conoscerle.

Ammettiamo che non tutti abbiano incontrato una maestra Rabaglia, pur tuttavia, se si è abituati a leggere, ma anche ascoltare, si dovrebbe capire, cammin facendo, quando un «ne» è di troppo, si dovrebbe sentire che nei verbi di movimento sta inscritto il moto e che se uno esce, o entra, è intrinseco che vada fuori o dentro, quindi è pleonastico attaccarci l’avverbio. I congiuntivi mancati, poi, sono una questione annosa che, personalmente, mi dà un fastidio fisico, come se la solita maestra Rabaglia mi avesse inoculato un antidoto che scatta appena sento un «Vorrei che mi dà quello rosso».
Qualcuno potrebbe obiettare che le lingue e il linguaggio sono mobili, che cambiano con il tempo, l’oralità, l’uso, la convenienza, le contaminazioni. Verissimo. Però un conto è scrivere o parlare sbagliato per incuranza, un altro per scelta espressiva. C’è molta differenza fra stravolgere volutamente le regole grammaticali per inventare un linguaggio, rendere un personaggio veritiero, un resoconto efficace e sbagliare un congiuntivo per sciatteria.
Dico sciatteria, e non ignoranza, per scelta. La prima presume non cura, disinteresse, superficialità e quindi è colpevole. La seconda, al contrario, non sempre è una colpa, talvolta diventa un’occasione. Faccio un esempio.
Sto leggendo, con imperdonabile ritardo perché uscì nel 2007, Terra matta di Vincenzo Rabito (Einaudi), caso eccezionale di alta letteratura scritta da un semi analfabeta. Nato in provincia di Ragusa nel 1899, famiglia poverissima, garzone, bracciante, soldato nella prima e nella seconda guerra mondiale, operaio, minatore, cantoniere, diploma di quinta elementare nel 1935, Rabito scrisse fra il 1968 e il 1975 la sua autobiografia, 1027 pagine, sulla Olivetti lettera 22 che uno dei tre figli aveva lasciato a casa. Rabito morì nel 1981 e il dattiloscritto rimase in un cassetto fino a quando suo figlio Giovanni lo inviò, nel 1999, all’Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano. L’anno dopo Terra matta vinse il premio Pieve- Banca Toscana e uno dei giurati commentò la scelta così: «Il capolavoro che non leggerete».

A volerla giudicare secondo i crismi dell’italiano corretto la lingua di Rabito è un fiume incessante di sgrammaticature, verbi sbagliati, sostantivi percossi, italiano e dialetto mischiati. Sarebbe un peccato mortale guardarla con quella lente perché Rabito in ogni riga, in ogni frase impasta la lingua orale con i sicilianismi e inventa, con gli strumenti che ha, una cattedrale di espressionismo linguistico, una nuova lingua, la sua.
«Io e mio fratello Ciovanni erimo inafabeto, perché alla scuola non ci avemmo potuto antare, però, con la boca che ci avemmo, nesuno si lo poteva credere che erimo inafabeto…Io e Ciovanni erimo forte socialiste, ma non sapemmo né llegire, né scrivere, e passava questa mincia. Solo la ciente potiemmo sentire parlare e c’imparammo qualche cosa per mezzo della cente».
C’è una certa differenza fra la suddetta citazione e un «È entrato dentro» detto senza riflettere. Anche perché non s’è mai visto nessuno «entrare fuori», finora.

mariangela.mianiti@gmail.com

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