Le feste, in ogni cultura, sembrano più grandiose, più solenni, se accompagnate dalla musica. Nell’Europa cristiana si continuarono, in altro modo, i riti dell’antichità pagana. In chiesa si cantava, elemento indispensabile della liturgia.

Agostino scrive al riguardo pagine bellissime, entusiastiche, nel suo De Musica. E i canti si facevano via via più lunghi, più elaborati. Finché, nel XII secolo, a renderli più solenni, un cantore della cappella di Nôtre Dame, a Parigi, Leonin, latinizzato in Magister Leoninus, ebbe l’idea di far cantare l’allungamento della melodia simultaneamente alla melodia preesistente.

Nacque così la polifonia, che può dunque essere considerata una sorta di variazione sulla melodia data. Leoninus non inventa dal niente, ma dà regole e struttura a una pratica d’improvvisazione già in uso da tempo. Il suo successore Perotinus perfeziona il procedimento.

Da Parigi la pratica si diffuse in tutta Europa. Nel XIV secolo, con l’Ars Nova, la sovrapposizione di una melodia a un’altra si applicò anche alla musica profana: nacque il mottetto, prima profano e divenuto sacro, accanto ad esso la chanson. Il metodo di composizione era lo stesso.

Inutilmente i conservatori protestarono, verso un’arte che pensavano imbarbarisse la purezza del canto monodico gregoriano. I Papi emanarono bolle di condanna, giudicando rumore e non musica la muova arte. Le argomentazioni di sempre contro il nuovo. Che tuttavia piaceva e si diffuse: la musica acquistava quello spessore intellettuale che nella considerazione dei più era riservata ai teorici. I musicisti, come i letterati, cominciarono dunque a firmare le proprie composizioni, che costruivano con calcoli matematici e schemi formali di raffinata articolazione. Le durate dei singoli suoni misurate da proporzioni calcolate sulla pagina, dentro strutture metriche anch’esse predisposte.

Il compositore approntava una tabella di altezze e un’altra di durate che veniva applicata alla melodia data, dalla quale se ne generavano altre, di solito in numero di quattro, ciascuna una voce distinta, e tutte si andavano sovrapponendo l’una all’altra, con un sistema poco diverso da quello che avrebbero sposato le avanguardie del secondo Novecento.

Nel secolo successivo, quando prevalsero i musicisti fiamminghi, oltre ai francesi, le voci si moltiplicarono. Nel Deo Gratias di Johannes Ockeghem quattro complessi di nove voci ciascuna si combinano via via fino a formare un canto di 36 voci distinte, in realtà 4 canoni di 9 voci ciascuno. Sarà solo con Stockhausen e i suoi Kontrapunkte che si ascolterà qualcosa di simile.

Lo stesso verbo componere, mettere insieme, comporre, nasce da questa pratica. Il musicista rivendica per sé il prestigio dell’artista, dell’intellettuale, di colui che esercita non un’attività manuale, ma un’arte, una scienza. Gioca, quindi, sul doppio significato della parola latina ars: sia arte sia scienza.

Ecco dunque che tutta la musica europea può a ragione individuare nel canto gregoriano e nei diversi modi trovati per rielaborarlo, la sua origine; ma soprattutto la necessità – quasi una vocazione – di rinnovarsi in quanto arte, scienza, attività dell’intelletto, più che del sentimento.

Guillaume de Machaut, nel XIV secolo, lo esprime chiaramente: «Musique est une science / qui veut qu’on rie et chante et dance». L’emozione è l’effetto, non la causa della musica. I romantici capovolgeranno il tutto, ma era nello spirito del tempo, e forse i compositori tra Medio Evo e Rinascimento avevano compreso meglio la natura della musica.