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La libertà tra le mura domestiche

La libertà tra le mura domestiche

Japanese House In uno spazio sociale fortemente organizzato in senso moderno e produttivista, la casa finisce per diventare il luogo di compensazione dove il giapponese sviluppa più liberamente la propria individualità

Pubblicato circa 8 anni faEdizione del 5 novembre 2016

Nell’introduzione a Made in Tokyo, gli autori descrivono con esattezza il disagio, vagamente alla Blade Runner, che coglie perfino il giapponese acculturato quando rientra a Tokyo dall’Europa, «Rotaie che scavalcano edifici, autostrade che corrono sopra i fiumi, rampe che portano auto al sesto piano…».
Com’è potuto succedere tutto questo? Cosa c’è che non va a Tokyo? Dopo qualche giorno però, confessano gli autori, la domanda scompare silenziosamente, insieme alla sensazione che ci sia qualcosa di sbagliato. Progressivamente ci si sente di nuovo a casa, come se ci fosse qualcosa, un dispositivo architettonico segreto, che fa in modo che lo spaesamento urbanistico complessivo venga dolcemente riassorbito e compensato all’interno della vita dei singoli individui. Sembra evidente che per Atelier Bow-Wow, di cui il volume citato raccoglie alcune ricerche, questo dispositivo sia la casa unifamiliare, e che la sua efficacia si estenda con facilità sul piano sia delle relazioni urbane che di quelle umane.

22. The Japanese House_AtelierBowWow_SplitMachiya_facade
Atelier Bow Wow

In uno spazio sociale fortemente organizzato in senso moderno e produttivista, spesso molto distante dalla «scala umana», e nel quale i comportamenti collettivi sono strettamente regolati, la casa finisce per diventare il luogo di compensazione dove il giapponese sviluppa più liberamente la propria individualità. Le case prendono spesso la forma del «libero comportamento» di chi le abita, vivono in media ventisei anni (il tempo di una generazione) e la città non può che accettare di derivare gran parte della propria forma instabile direttamente dalla somma delle singole unità.

Perfettamente espressa nel padiglione giapponese della Biennale Architettura 2010, questa sembra essere la vera natura del metabolismo urbano di Tokyo. La Biennale in questione – curata non a caso da Kazuyo Sejima – ha luogo in un periodo in cui la «questione urbana» domina la discussione. Ancora poco distratti dalla crisi, tutti si interrogano su come arrestare l’infinito sprawl di case che il «capitalismo molecolare» distribuisce disordinatamente con modalità più o meno simili in tutto il mondo, dalle periferie sudamericane alle aree costiere asiatiche, dalle zone metropolitane subsahariane alle coste del Mediterraneo.

Gli autori di Tokyo metabolizing, basandosi sull’esperienza giapponese, propongono una soluzione inedita e disturbante al problema: non ha senso tentare di ripristinare un ordine urbanistico (eurocentrico) perduto, ma conviene cercare di comprendere regole e ritmi del metabolismo dello spazio urbano contemporaneo per imparare a lavorarci dentro; per farlo bisogna convincersi che le distinzioni di scala tradizionali non funzionano più e che l’unità minima di costruzione, vale a dire la casa unifamiliare, una volta stabilita una solida rete di infrastrutture, ha la stessa – o forse maggiore – importanza di un edificio pubblico, di un centro commerciale o di un grattacielo di uffici.

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