Tra i registi e le registe contemporanee impegnati a comprovare l’attualità furente, la futuribilità del cinema, Claire Denis rappresenta un punto di snodo essenziale per le intersezioni, le sovrapposizioni, le osmosi che si sviluppano tra le immagini cinematografiche e la filosofia, intesa non in quanto speculazione tutta cerebrale e autoreferenziale, ma come azione nel mondo, azione sul mondo, secondo un’ingiunzione che va almeno da Klossowki a Foucault e arriva fino a Nancy. Azione all’insegna dell’eros, azione sessuale che parte dal corpo e investe le cose: per Klossowski si parla di «filosofia viziosa»; il che dice chiaramente di un pensare non disgiunto dall’esperienza, dalla pragmatica del quotidiano, che però è sempre pragmatica di esaltazione dei sensi, anche nelle sue pieghe più oscure, cosmogoniche, là dove il mistero del Tutto si situa sulla superficie del corpo, nello spazio delle frizioni, delle secrezioni.

PROPRIO nei giorni in cui Claire Denis presiedeva la giuria della Cinefondation e del concorso cortometraggi al Festival di Cannes appena concluso, è uscito in home video (per Wilde Side Video) High Life, il suo film forse più filosofico (insieme a Trouble Every Day) oltre che politico, se si pensa al contesto reazionario da cui il viaggio intergalattico dei condannati prende il via, che allude certamente alle recrudescenze sovraniste, neofasciste dell’Occidente attuale, intollerante verso le etnie e le sessualità in costante diversificazione.

È proprio questo il paradigma che tiene insieme le immagini vischiose, secrete di questo film davvero straordinario: la coincidenza di essere e sessualità; l’idea di esistere nella misura del sesso, nel senso di un’esperienza di sesso che del resto, nella concezione di Denis, porta in sé i crismi dello spazio, dell’universo. «Sexistence» è il termine coniato da Nancy, tradotto in «sessistenza» nell’omonima edizione italiana (curata da Romana Recchia Luciani); che si ricongiunge alla tradizione del «vizioso» in accezione klossowskiana: il «vizio», inteso positivamente, in quanto liberazione e cultura, liberazione della cultura, quindi non come eterogenesi, qualcosa di accidentale, sopravvenuto nel corso della formazione dell’io, ma come ontologia, centro di umanità permanente, o meglio, punto focale di un’umanità centrifuga, atta a cadere, perdersi, in viaggio verso il proprio oscuro mistero. Che è il mistero del cosmo più remoto: il vuoto, il buio sterminato in cui Monte e Willow sono proiettati; non metafora di queste plaghe siderali, ma parte di esse, della loro stessa sostanza, secondo quel procedimento metonimico che è del grande cinema, anzi, della grande arte.

COSÌ L’OSCURITÀ del cubicolo in cui la dottoressa Dibs si masturba, e che rimanda a quella fuori, l’ignoto spazio profondo entro cui galleggiano e si perdono i corpi con effetto tutto cinematografico e al di là delle leggi della fisica, è l’affiorare icastico di quel baratro in cui maturano il desiderio e le pulsioni del soggetto. È nel cinema allora, nella zona vuota, tenebrosa di fluttuazione dei segni, che prende corpo la continuità tutta materiale, la coestensione tra abisso interno, psicologico – come il pozzo d’acqua cupa, rotto da un sasso, che Monte vede in sogno – e spazio esterno, quello vertiginoso in cui fluttua lento, alla velocità della luce, il cargo. Ed esiste una scena che sintetizza tale coestensione, come un rispecchiamento tra parti di un unico enigma: l’interno roseo, rilucente di Boyse appena fecondata, tra membrane di luce e aurore di tessuti, che si intreccia a un cielo scuro, ondeggiante sopra, vastamente, a scandire una geografia dell’oscurità dell’esistenza, che assimila pulsioni individuali, minuscole genesi avviatesi in utero e spazi macroscopici, guardando a 2001 Odissea nello spazio.

IL CONTORCERSI di una monumentale Juliette Binoche, animalesco, tra carname e velli, natiche turgide e spasimo di scapole, mentre cronenberghianamente si prende il piacere dalle protesi di un sedile, è movimento verso la sovrumana desolazione del buco nero, eppure contempla la genesi, il concepimento, questo sì come «eterogenesi dei fini»: la prospettiva di una palingenesi, che ha il volto limpido e la spiccata umanità di Willow che però non ha mai visto il mondo. E allora per Claire Denis la sessistenza è la base, può esserlo – al di là dell’autoreferenzialità della prestazione sessuale – per una riformulazione del concetto di famiglia, come già accadeva in altri suoi film, tra riluttanze alla maternità, nuove aggregazioni a prescindere dai legami di sangue, o, come in High Life appunto, avviene una tripartizione proprio biologica – ancora una volta metonimica – della genitorialità, quando Dibs «sciamana dello sperma», suscita il seme di Monte nella sua vagina per poi traslarlo in Boyse inconsapevole, da cui nasce Willow, i cui lineamenti richiamano in modo evidente quelli della dottoressa anziché di sua madre, e d’altro canto stimolano la riflessione sull’origine spuria ed enigmatica dell’immagine cinematografica e sul proprio destino di ricongiunzione con altre immagini sparse nello spazio-tempo.

È POSSIBILE che Willow e suo padre (esempio di quel magnetismo, anche ambiguo, al confine dell’incesto, che esercitano gli esseri l’uno sull’altro nel cinema di Claire Denis) attraversino indenni l’abominio del buco nero ritrovandosi dall’altra parte, da un’altra parte: forse alla fine di Nenette e Boni, anzi nella fine, incarnati in quei personaggi, proprio quando il ragazzo si prepara a essere padre di suo nipote; o nella Parigi dei suburbi ferroviari di 35 Rhums, mentre Joséphin s’appresta a sposarsi sotto lo sguardo malinconico e geloso di suo padre, o altrove, in opere ancora da farsi.