Snodi, crocicchi, boe, segnali: ci sono musicisti che, a volte loro malgrado, altre con piena coscienza, riescono a mettere nel proprio catalogo personale di vita e di risultati tutto questo. Persone che condensano, attorno a sé, l’accadere degli eventi. Si trovano al posto giusto al momento giusto, intercettano la presenza del nuovo che la società attorno diffonde per indizi prima che la stessa ne abbia compiuta consapevolezza. Acchiappano al volo gli stimoli, li convertono in arte, e a quel punto l’arte andrà a indirizzare di nuovo se non la società tutta, almeno una parte consapevole di essa. David Crosby, scomparso a ottantuno anni, sopravvissuto a quanto avrebbe steso un battaglione di commando, è stato un musicista di questa levatura. A lui la sorte ha riservato un doppio ottimo trattamento, in questo senso: due volte nella vita (e ne ha sfiorata una terza, proprio in questi ultimi anni) è stato nell’occhio del ciclone del cambiamento. Con la musica, ma in un momento cruciale per la storia dell’Occidente in cui la musica (tutta la scaturigine della complessa, articolata rivoluzione estetica nata dall’irrompere delle note afroamericane, popular e d’arte) non è stata solo successione di note di durata diversa, soddisfazione estetica, gusto e divertimento personale e generazionale.

SOMMOVIMENTI
La musica jazz e rhythm and blues prima, rock poi, è stata collante di almeno due generazioni, il modo per trovare «le parole per dirlo», se vogliamo usare un riferimento letterario, quando le parole per definire il nuovo ancora non c’erano, è stata al contempo motore, veicolo, causa ed effetto di uno dei più interessanti e febbrili episodi di sommovimento sociale che la storia moderna abbia conosciuto. Per dirla con Goffredo Fofi e altri attenti osservatori, il «secolo dei giovani». Inventati come categoria sociologica di consumatori dal capitalismo moderno a caccia di sbocchi, nel secondo dopoguerra della «affluent society» che prometteva la felicità del e nel consumismo, ma sfuggiti al dominio della merce schierandosi dalla parte di chi la merce voleva combatterla in nome dell’uguaglianza e contro le élite incravattate e in grigio, d’abito e di testa. In cerca di una nuova spiritualità, di nuovi modelli valoriali, di un socialismo pacifista in cui la guerra poteva entrarci solo se di liberazione consapevole di un popolo oppresso. Non solo un’invenzione mediatica, ma una forza scardinante, innovativa, radicale che oggi solo la velenosa risacca di una destra ringalluzzita può scatenarsi a condannare, perché quella generazione rigettò il mito del produrre per consumare per produrre e poi, morire, e che nessuno, più, mettesse in discussione il modello che produce cotanto sperpero esistenziale.
Torniamo a Crosby, anzi, al giovanissimo Crosby, un ragazzo che per ragioni anagrafiche (era nato a Los Angeles il 14 agosto 1941, quattro mesi prima che i giapponesi scatenassero l’attacco di Pearl Harbour), per sua natura ribelle e orgogliosamente indisciplinata, per caso e perché le cose accadono soprattutto nostro malgrado, si trovò al centro di diverse rivoluzioni: estetiche, sociali, esistenziali. Finendo per esserne un protagonista. Di grande musica e di pensiero. Perché i testi che ha scritto Crosby, o che ha scelto di cantare di volta in volta con compagni di palco o di sala di registrazione diversi, viaggiano sulle medesime direttrici intransigentemente libertarie. Innesco prezioso per un’altra generazione a venire, oggi «classico» suo malgrado (e «classic rock» è l’etichetta tuttofare che oggi raccoglie i cocci redditizi di quella stagione, rivenduta all’infinito): ma anche i classici possono essere stati rivoluzionari.

IL PRIMO GRUPPO
Eppure gli inizi di Crosby sono nel segno del folk revival, come successe anche a Bob Dylan. Quello era lo sbocco, allora, per chi imbracciava una chitarra. Era nato in una famiglia benestante di Los Angeles, suo padre curava con successo la fotografia nei film di Hollywood, le prime foto con uno strumento in mano ci rimandano, apparentemente, un «clean cut kid», un ragazzo a modo col cravattino, la giacca, i capelli corti e una chitarra acustica a tracolla. Non era così: i provvedimenti disciplinari a scuola fioccano, lui è un ribelle di natura, non le manda a dire. Va via da casa, diventa un musicista girovago da coffee house, fuma marijuana, a volte per sbarcare il lunario rubacchia. A ventuno anni diventa anche padre, l’ultima delle sue scelte, frequenta le prime comuni hippie, diventa amico del giro di musicisti che il mondo conoscerà come Jefferson Airplane e Grateful Dead, Hot Tuna, Quicksilver Messenger Service. Il primo nucleo dei Byrds nasce come The Jet Set quando incontra Jim (a breve sarà Roger) McGuinn e Gene Clark, stesso ambito folk, recupero di vecchie ballate e blues.
Però nel frattempo, è il 1964, è esploso il fenomeno Beatles, approdato anche negli Usa con il primo tour e il successo di I Want to Hold Your Hand. Energie nuove. Il trio diventa quintetto, con basso e batteria, ed elettrica. Il nome viene fuori inseguendo la medesima storpiatura creativa che ha trasformato gli «scarafaggi» inglesi (beetles) negli scarafaggi col battito, il beat, dunque i Beatles. Loro si sentono e sono in volo, e da The Birds esce fuori The Byrds. C’è un momento esatto in cui il folk negli Usa diventa un «altro» rock, che non è il rock’n’roll «bianco» alla Bill Haley, né quello «nero» di Little Richard, né nulla di quanto ascoltato prima, e i Byrds, assieme ai Buffalo Springfield, ai 13th Floor Elevators e tanti altri, di alterne fortune, lo intercettano e lo presentano al mondo.
E nelle cantine di ogni più misconosciuto paesino della pancia degli Usa il rumore di migliaia gruppi sta crescendo come un urlo collettivo, spesso inconsapevole, di insoddisfazione e di liberazione assieme. Lo chiameranno garage rock, è ruvido e poeticamente maleducato come le manifestazioni che squassano le città, a metà dei Sessanta: si va creando un inedito fronte comune tra gli studenti universitari bianchi e gli afroamericani dei ghetti neri, la fine del decennio precedente ha visto spaventosi atti di razzismo, ha rilanciato il Ku Klux Klan che incamerava consensi su rancore velenoso e linciaggi, e poi la nascita dei Freedom Rides, sorta di flash mob di giovani bianchi e neri assieme nei luoghi pubblici contro la segregazione razziale che ha ridato parola e azione. In più c’è il fantasma, tutt’altro che incorporeo, di quella cartolina precetto che da un momento all’altro può sbatterti con un fucile in mano a uccidere contadini vietnamiti, o a essere ucciso: in decine di migliaia varcano i confini degli States, a Nord e a Sud.

L’ESORDIO
I Byrds di David Crosby e di McGuinn cominciano a sparigliare le carte musicali: ed è interessante che lo facciano a partire da una canzone di Bob Dylan, non ancora pubblicata in quel momento, e proprio nel momento in cui anche Dylan si prepara a capovolgere il suo mondo folk in un febbricitante, spiritato folk rock che scandalizzerà i puristi, e farà gridare all’eresia musicale. La canzone è Mr. Tambourine Man, inno ben poco velato a chi procura l’erba maria che fa sognare e rilassa i nervi: il manager dei Byrds la intercetta, la fa ascoltare al gruppo di McGuinn e Crosby, è la svolta.
Roger s’inventa un suono nuovo sulla sua Rickenbaker a dodici corde, una nuvola di tintinnii celestiali e avvolgenti che chiameranno jingle jangle sound (e jingle jangle in realtà sono due parole contenute proprio nel testo del brano di Dylan), e un riff introduttivo che serve a lanciarti addosso la potenza della canzone, Crosby intuisce invece che cambiando il tempo folk in due quarti del brano in un filante quattro quarti in cui lui può sfoderare il suo talento di chitarrista ritmico (oltre che quello di meraviglioso arpeggiatore in fingerpicking) il brano decolla. E così è, e decollano anche i Byrds. Che quella formula cominceranno ad applicare quasi a ogni brano, con il ricordo della vecchia country music, lo sciame della nuova energia elettrica rock, una bella dose di rumore e suoni curiosi che entrano di diritto nelle aspettative di chi vuole essere portato in un altro mondo, non restare in a quello dove rischi il Vietnam, la galera e le manganellate, se non sei d’ accordo con un futuro inquadrato.
Sembra una piccola cosa, dilagherà invece in tutto il mondo già scosso dalla primissima ondata rock: l’Inghilterra folk, ad esempio, seguirà a ruota, inventando il proprio folk rock con gente come i Fairport Convention, i Pentangle, gli Steeleye Span. Il suo personalissimo colpo da maestro, altrettanto influente sulla storia della popular music a venire, Crosby lo piazza sempre con i Byrds, prima che si consumi il paio d’anni febbrili di una resa dei conti con McGuinn, due teste troppo potenti e mercuriali per poter stare nello stesso gruppo. Il colpo da maestro che inventa, o comunque precisa i contorni di una diramazione intera del rock a venire si chiama Eight Miles High, dunque «a un’altezza di otto miglia». «High», però, non sta solo a indicare l’altezza di un aereo che porta in giro i Byrds per concerti: nel gergo che tutti conoscono lì sta per «essere su di giri per sostanze psicotrope», e la mannaia della censura bandirà la canzone da molte radio. Esce nel marzo del ’66, e qui viene fuori un altro aspetto seminale del genio di David Crosby.

PASSIONE COLTRANE
Crosby conosceva, e bene, il jazz rivoluzionario della fine degli anni Cinquanta, grazie ai dischi che gli faceva ascoltare il fratello Ethan: a cominciare da Dave Brubeck, che sperimentava strani brani comunicativi con tempi dispari e composti di origine «etnica». Poi arriva l’amore totale per John Coltrane e le sue torrenziali, ferine improvvisazioni dilatate per mezze ore intere su un pedale di uno, due accordi. Una volta, a Chicago, Crosby lo aveva ascoltato suonare, ed è quasi la partecipazione a un rito dionisiaco. Sui furgoni dei Byrds Crosby ha le registrazioni di Coltrane: le fa ascoltare ai suoi sodali e a quella testa «folk» di Roger McGuinn per ore, li stordisce e li convince a tentare. Poi c’era stata la scoperta di Ravi Shankar e della musica indiana: parti da una linea melodica, la sondi in ogni aspetto possibile anche per un’ora, ipnotizzando lo strumento, te stesso e chi ti ascolta. Eccolo il segreto di Eight Miles High, dilatato come un raga, torrenziale come un solo di Coltrane, ma il tutto in chiave rock. Nessun gruppo successivo che si inventi cavalcate elettriche potrà fare a meno di quel riferimento.
Chi sta facendo più o meno lo stesso percorso, nel medesimo momento, sono i Buffalo Springfield. Le teste guida sono quelle di Stephen Stills, un chitarrista texano con l’unghiata blues più che evidente e il timido canadese Neil Young, che quando ha un’elettrica in mano perde il controllo, e replica senza saperlo le avventure dilatate dei cugini di fatto Byrds. Si ritroveranno tutti assieme anni dopo con Crosby e con un ragazzo inglese gentile nei modi e rocker selvaggio, Graham Nash, in quel supergruppo celestiale che il mondo conoscerà come CSN&Y, Crosby, Stills, Nash & Young. Ma un prodromo c’era già stato, e significativo: nel giugno del ’67 al Festival di Monterey, fulgore della Summer of Love, Crosby sale sul palco e si unisce ai Buffalo Springfield.

NUOVE AVVENTURE
Dal ’68 in avanti cominciano altre avventure per Crosby, ormai solidamente insediato nella scena della controcultura di San Francisco. La voce allenata e gonfia d’armonici c’è già, manca ancora qualche rifinitura al tocco chitarristico: i nuovi trucchi glieli insegnerà una giovane folksinger di belle speranze che come lui ama il jazz, e sa suonare quegli strani accordi aperti che fanno risuonare le corde con una speciale magia, o praticare le accordature aperte, che garantiscono una sorta di tappeto modale perfetto per le più ardite improvvisazioni sul manico della sei corde. Crosby farà tesoro delle cose che gli ha mostrato la canadese Joni Mitchell, diventando uno dei più raffinati vocalist e chitarristi californiani: a riprova si ascolti quel capolavoro assoluto che è If I Could Only Remember My Name, un disco del ’71 che riunisce praticamente la summa delle energie creative californiane dell’epoca (i Grateful Dead e i Jefferson Airplane quasi al completo). Lì, misteriose dilatazioni vocali che forzano i limiti del folk psichedelico, crudo rock, una filastrocca francese del Quattrocento cantata da Crosby con mille voci diverse, labirinti di arpeggi, canzoni trasparenti e perfette che incutono quasi timore. C’è già tutto il Crosby futuro, quello arrivato a oggi – dopo mesti periodi di buio, di paranoia, di malinconia estrema per la fine del sogno libertario hippie – con un rinforzo di raffinatezze jazz nelle composizioni. Si ascolti il suo testamento finale, quel Live at the Capitol Theatre uscito proprio in questi giorni, dove l’anziano hippie ha l’intelligenza creativa di mettersi accanto altri giovani songwriter, quasi a indicare un passaggio di testimone. Di sicuro le aperture vertiginose dei Byrds e dei più crudi Buffalo Springfield hanno preparato una strada aperta e spianata per tanto rock inventivo da decenni, e per decenni a venire, forse.
È proprio nella Los Angeles città natale di David Crosby che, dai primi anni Ottanta, prende forma un movimento musicale che ripudia il techno pop a colori acidi nascente dei sintetizzatori e torna a intercettare il filo della storia del folk rock psichedelico. Con chitarre, organo, basso e batteria. Tra i due momenti c’è stato lo scossone del punk rock, e si sente: i suoni si sono induriti ulteriormente, i tempi spesso asciugati, tutto è più conciso e diretto, perché il sogno non è più a occhi aperti, ma un ricordo. Lo chiamarono Paisley Undergrond quel coacervo di gruppi, e il termine si riferisce a quei motivi decorativi indiani e persiani a goccia che adornavano abiti, oggetti degli hippie di San Francisco e della California tutta. Un ricordo appunto. Ma, almeno, tornano le chitarre scintillanti, precise e jingle jangle, i riff dilatati allo spasimo, le improvvisazioni infinite che sembrano portarti via, o compresse come palle d’energia, il country ricondotto a radici polverose e schiette.
Il gruppo simbolo lo indicheremmo nei Dream Syndicate di Steve Wynn, peraltro ritornati sulla scena di questi tempi, ormai veterani di un glorioso rumore psichedelico e col ricordo del sogno precedente già nel nome, ma mettiamo in conto almeno anche Green On Red, Long Ryders (si noti la »y» byrdsiana nel nome), Rain Parade, maestri della dilatazione psichedelica, spaccatisi poi nei due tronconi Opal e Mazzy Star, i rocciosi e fumiganti Thin White Rope, un desert rock allucinato e gonfio che mette ancora i brividi, i True West.
A propria volta i gruppi del Paisley Underground dissodano il terreno per la nuova ondata di band, attiva nel decennio successivo: i sognanti Mercury Rev che ricamano trine dream pop, i furibondi Screaming Trees, gli intellettuali del country folk rock elettrico Wilco, i Grandaddy che riescono a frullare assieme umori prog, scossoni punk, derive dream pop e psichedeliche, i Walkabouts, riassunto quasi filologico di ogni nota scritta tra il ’65 e la fine del decennio successivo.

GLI EREDI
Qualche nome è rimasto nel cuore di tutti, e lì staziona sicuro: i Teenage Fanclub da Glasgow, con i santini di Big Star e dei Byrds sul comodino, essi stessi favolosa macchina power pop e folk rock, certi Pearl Jam, non a caso spesso speculari e sodali con le avventure brucianti del vecchio coyote Neil Young e, in fondo, il nome più amato di tutti: R.E.M. Le avventure sonore tintinnanti, malinconiche e potenti del gruppo di Michael Stipe chiudono il cerchio dove di sicuro il cerchio ha cominciato a rotolare: dalle parti dei Byrds di David Crosby, degli Hollies di Graham Nash, dei Buffalo Springfield di Neil Young e Stephen Stills. A volte il futuro è appena dietro le spalle.