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La lezione del caso Electrolux

La lezione del caso Electrolux – Emblema

Lavoro Perché l’ortodossia classica (liberista e keynesiana) che suggerisce di passare a produzioni ad alto valore aggiunto non risolve più, oggi, la crisi industriale italiana. Che chiede un’altra riconversione possibile

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 19 febbraio 2014

Che fare quando il padrone di un’azienda decide di chiuderla, o di trasferirla all’estero per pagare meno tasse, o per pagare meno gli operai, o per poter inquinare l’ambiente senza tante storie? A lume di naso, la prima cosa da fare è requisire l’azienda (i sindaci hanno il potere di farlo, se non altro per motivi di ordine pubblico) e impedirgli di portar via i macchinari. Poi bisognerebbe bloccargli i conti e farsi restituire i fondi che, 90 probabilità su 100, ha già ricevuto dallo Stato sotto forma di contributi a fondo perduto, credito agevolato, sconti fiscali e contributivi (ma qui dovrebbero intervenire anche altre istituzioni: Governo e magistratura). A maggior ragione questo vale se l’imprenditore in questione pone delle condizioni inaccettabili per “restare”: per esempio dimezzare i salari, come all’Electrolux.
Ma quello che non bisognerebbe assolutamente fare è cercare un nuovo padrone, che è invece il modo in cui il Governo italiano finge di affrontare le situazioni di crisi (sul tema sono aperti al ministero dello Sviluppo economico più di 160 “tavoli”). Se ci fosse un “imprenditore” o un gruppo disposto a rilevare l’impresa alle condizioni esistenti si sarebbe già fatto avanti per conto suo. E infatti, le poche aziende italiane che vanno ancora bene, soprattutto sui mercati esteri, trovano facilmente dei compratori: sono state svendute quasi tutte. Ma quelle che non reggono più hanno bisogno di un’altra cura: devono riconvertire la produzione e cercare nuovi sbocchi, possibilmente nei campi che hanno un futuro, perché sono quelli nei quali la crisi ambientale renderà presto inderogabile investire.
Naturalmente una riconversione del genere non può gravare solo sulle spalle delle maestranze abbandonate. Devono farsene carico, accanto a loro, sindaci e amministratori locali, sindacati, università e centri di ricerca, associazioni. Perché è proprio nel territorio, o nei territori che sono teatro di vicende analoghe, che si devono andare a cercare gli sbocchi per i nuovi assetti produttivi.
Viceversa, se un nuovo padrone – o imprenditore – si fa avanti solo ora, è perché si aspetta dallo Stato condizioni di favore – cioè un sacco di soldi – e possiamo essere sicuri che lo fa per intascarseli. Un esempio illuminante: i due bancarottieri che si erano fatti avanti per rilevare l’impianto Fiat di Termini Imerese. I risultati si vedono: l’impianto è ancora a lì, vuoto, a quattro anni da quando si sa per certo che sarebbe stato dismesso; e quegli aspiranti imprenditori si sono dissolti nel nulla; o sono in galera. Un’azienda che “se ne vuole andare” non ha alcun interesse a lasciare a un potenziale concorrente marchio, brevetti, mercati, o anche solo una manodopera ben addestrata; e quindi farà di tutto per rendere oneroso e non redditizio il subentro. La Jabil di Cassina de’Pecchi fa scuola; li c’era tutto per andare avanti: manodopera competente, impianti e prodotti di avanguardia, clienti interessati; ma la proprietà non intende favorire un potenziale concorrente e preferisce mandare tutto in malora. Tante le esperienze sotto i nostri occhi: Alcoa, Alcatel, Jabil, Nokia, Lucent, Lucchini, Maflow, Micron Technology, e chi più ne ha più ne metta. Quando il Governo dice che bisogna attrarre investitori esteri, non è certo a impianti come questi che pensa. Pensa solo a “fare cassa” vendendo quello che funziona ancora o che comunque rende: autostrade, ferrovie, poste, Eni, Enel, Terna, ecc.

Le minacce di “andarsene” o la decisione di chiudere o vendere sono altrettante mosse di una corsa al ribasso per spremere sempre di più i lavoratori: la vicenda Electrolux insegna. Se si accettano le regole della globalizzazione liberista, che affida alla concorrenza al ribasso l’organizzazione e la distribuzione territoriale e settoriale della produzione, a questa logica non c’è scampo. Ma, obiettano i cultori dell’ortodossia economica (che in questo ambito accomuna liberisti e keynesiani), per non sottostare a questa logica una strada c’è: passare a produzioni a più alto valore aggiunto e maggiori margini: invece di produrre utilitarie, produrre Maserati e Jeep, invece di lavatrici e frigo, impianti industriali di refrigerazione, ecc. Più in generale, passare a produzioni a maggior contenuto di tecnologie e di ricerca.

Intanto per i prodotti ad alto valore aggiunto bisogna trovare un mercato, per lo più già occupato da qualcun altro. Per esempio, la Fiat (ora Fca) ha ben poche carte in mano per sottrarre quote del mercato europeo di fascia alta a Mercedes, Bmw o Audi. Per questo la produzione automobilistica di Fca Italia, e con essa i suoi stabilimenti, sono in gran parte condannati a morte. Per additare una via di uscita i teorici dell’ortodossia ricorrono a una vecchia teoria dello sviluppo degli anni ’60 di Albert Hirschman, detta delle “anitre volanti”: le economie sono come uno stormo di anatre che volano una dietro l’altra. Mano a mano che quelle di testa passano a livelli tecnologici e più avanzati, quelle che seguono vanno a occupare le posizioni abbandonate dalle prime; e così, tutte insieme, promuovono lo sviluppo globale. Ma quella teoria rispecchiava l’andamento delle cose cinquant’anni fa (Stati uniti in testa e, a seguire, Europa, Giappone, Corea, ecc.). Ma oggi non funziona più per il semplice motivo che molti dei paesi a più bassi livelli salariali e di protezione dell’ambiente, che proprio per questo sono diventate le manifatture del mondo (prima tra essi, la Cina), oggi sono anche molto più avanti di noi – e non solo dell’Italia, ma anche dell’Europa – nella ricerca scientifica e tecnologica: è devastante competere con loro sui livelli salariali, anche se molte imprese non vedono altra strada per cercare di sopravvivere; ma in molti casi è anche impossibile competere sui livelli tecnologici; soprattutto in Italia dove istruzione e ricerca sono ambiti disprezzati e negletti.
C’è un ambito in cui l’Italia e l’Europa mantengono ancora qualche vantaggio “competitivo” (ma meglio sarebbe dire, in questo caso, cooperativo), anche se è anch’esso in via di smantellamento per via delle teorie liberiste che riducono tutto al dollar-value, al denaro. Quest’ambito è la complessità sociale, l’abitudine alla vita associata, una dimensione fondamentale della socialità, il radicamento in una tradizione di cui il patrimonio culturale rappresenta la stratificazione incompresa (e per questo trascurata). È un fattore che non può essere costruito, ricostruito, o recuperato in pochi anni e di cui lo sviluppo tumultuoso delle economie emergenti ha privato gran parte delle rispettive comunità proprio nei loro punti di maggior forza; senza l’accortezza di conservarlo o di sostituirlo con qualcosa di equivalente.

È questo il presupposto di una ricostruzione su basi federaliste di un’economia europea autosufficiente (ma non autarchica), non competitiva (nel senso di non più impegnata in quella corsa al ribasso che è sotto gli occhi di tutti), che sappia utilizzare le tecnologie disponibili e i saperi diffusi, sia tecnici che “esperienziali”, per riagganciare la produzione ai bisogni condivisi della popolazione attraverso il potenziamento di una nuova “generazione” di servizi pubblici locali in forme partecipate, sotto il controllo dei governi dei territori: in campo energetico (impianti diffusi, differenziati e interconnessi di utilizzo delle fonti rinnovabili ed efficientamento dei carichi energetici) e in quello agroalimentare (agricoltura di qualità ed industria alimentare a km0); nel campo di una mobilità flessibile, integrando trasporto di massa e trasporto personalizzato, sia di merci che di passeggeri, attraverso la condivisione dei veicoli; nel campo del recupero e della valorizzazione delle risorse (quello che noi oggi chiamiamo gestione dei rifiuti), nella salvaguardia e nella valorizzazione del territorio (assetti idrogeologici, urbanistici, paesaggistici, monumentali, industria turistica, ecc.) e, soprattutto, nei campi della cultura, della ricerca, dell’istruzione, della difesa della salute fisica e mentale di tutti.

Ecco, allora, profilarsi un destino diverso per le aziende abbandonate e senza più sbocchi; ecco un ruolo strategico per le amministrazioni locali che intendono farsi carico delle condizioni di vita, ma anche del patrimonio di esperienza, di conoscenza, di saperi tecnici, di abitudine alla cooperazione delle maestranze messe alla porta dai loro datori di lavoro; ed ecco, infine, il presupposto irrinunciabile per promuovere un’alternativa di governo, a partire dall’iniziativa locale, per far fronte al caos a cui ci sta condannando l’attuale governance europea. Detta così sembra un’utopia: ma andiamo incontro a tempi in cui prospettare soluzioni estreme e finora “impensabili” diventerà necessario.

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