In alcune bottiglie vuote sono gelosamente conservati i pensieri di poeti e poete in esilio. Raggruppate come fossero una natura morta del Seicento, un memento mori, in una teca fiocamente illuminata, resistono alla volatizzazione e l’oblio, restituendo voci censurate, interdette, ridotte al silenzio ma qui riconsegnate in una dimensione insieme intima e collettiva.

È UN’OPERA POTENTE, che racconta in assenza (e, in questo senso, è la più iconica del percorso) quella di Shilpa Gupta inserita nell’itinerario della mostra al Maxxi L’Aquila visibileinvisibile (fino al 1 ottobre). E che torna su un’ossessione dell’artista per i «confini non detti»: già alla Biennale del 2019 avevamo visto nell’Arsenale una distesa di fogli inchiodati a un leggio sovrastati da microfoni da cui uscivano versi, frasi, ricordi di scrittori spesso detenuti per motivi politici e per ribellioni a norme pregiudiziali. Nonostante gli affondi nella realtà e nelle storie indagate, Gupta mantiene alta, nell’arte, l’attenzione al proprio vissuto, alle vicende del suo paese e le difficoltà di attraversare un quotidiano spesso insicuro.
Le sue pietre di fiume di frontiera che battono incessantemente un tempo sospeso e «poroso» (raccolte al confine fra India e Bangladesh), il suo calco dei piedi bloccati dal lockdown, la misurazione della «distanza fra le lacrime» affidata a una barretta di alluminio che attira (verso l’invisibile, appunto) come una calamita il pubblico, narrano di immobilità forzate, memorie riaffioranti, magie domestiche, entrando in un dialogo serrato con le scarpette intrecciate nel nylon (che in un’epoca lontana furono fotografate e «abbandonate» in spiaggia) e le apparizioni angeliche di Marisa Merz. È così, infatti, che la curatrice Fanny Borel ha concepito questa mostra rarefatta, in un tandem fenomenologico di lavori che accolgono una cronologia esistenziale al loro interno.

Exhibition view “visibileinvisibile”

È QUEL CHE ACCADE nel celebre video La conta in cui Marisa Merz, su un tavolo di cucina, si dedica con grande compostezza e una gestualità ritmata, rituale, a contare i piselli estratti dal barattolo. O nel «sipario» dell’opera I will di Shilpa Gupta: quando si spostano le tendine rosse che coprono uno specchio, chi interagisce con l’installazione si vede riflesso e con sovrimpressa sul suo corpo la scritta die. L’arco vitale si consuma dal desiderio al morire, come necessaria prospettiva che inquadra tutti gli esseri umani e reminiscenza rivisitata della presenza del teschio nei dipinti barocchi.
Il confronto fra le due artiste, che mai hanno incrociato le loro strade (Merz è scomparsa nel 2019) aleggia intorno ai concetti di visibile e invisibile che si irradiano lungo le stanze dell’esposizione, ma soprattutto «si costruisce in quella dimensione in cui lavoro e vita personale sfumano. Marisa Merz sfilacciò il confine fra l’essere madre e artista, mettendo sullo stesso piano professionalità e ambiente domestico; Gupta, sempre mescolando i due registri, aggancia l’inquietudine del quotidiano, l’isolamento pandemico», spiega Borel.
Tutte e due fanno riferimento in diverse opere ai loro corpi. Ci sono il lavoro a maglia e i simulacri organici delle Sculture viventi per Merz e c’è la cera che riporta il calco di Gupta, i cui strati «archiviati» riproducono anche il suo peso. «Un peso – continua la curatrice – che è materiale e immateriale, fisico e mobile». D’altronde, ha affermato l’autrice indiana, «crescendo come donna nell’Asia meridionale, è impossibile non pensare alle linee che vengono costantemente tracciate intorno a te».

Shilpa Gupta, Spoken poem in a bottle

IL MAXXI L’AQUILA, sotto la direzione artistica di Bartolomeo Pietromarchi, è un museo giovane (ha aperto solo due anni fa, nel giugno 2021, nel pieno centro storico della città ferita dal sisma e dai ritardi pantagruelici della ricostruzione) nel bel palazzo Ardinghelli. Non ha collezione nelle sue sale – se si escludono una scultura di Nunzio nell’ingresso e una «colonna» di Spalletti in una nicchia come opere permanenti – ed è adibito solo a mostre temporanee. Poteva essere un’astronave aliena atterrata in piazza Santa Maria Paganica, ma oggi sta cercando una sua identità collaborativa sia con le eccellenze che operano sul territorio sia con le istituzioni – università, accademia, fondazioni – ospitando percorsi con studenti, festival di performance, laboratori con le scuole.
Presto dovrebbe aprire una sala studio, liberamente fruibile, così da riconsegnare in larga parte quel luogo ai suoi abitanti.