La impossibilità del castigo nella favola nera di Gunnar Gunnarsson
Scrittori islandesi «L'uccello nero», da Iperborea
Scrittori islandesi «L'uccello nero», da Iperborea
Modellando sui paesaggi rurali una epica della «società primigenia», Gunnar Gunnarsson descrisse l’Islanda natìa nella sua lingua acquisita, il danese, incontrando da subito una diffusa attenzione nella sua città di adozione, Copenaghen, dove gli scrittori (da Hermann Bang a Johannes Wilhelm Jensen) narravano soprattutto del disagio della civiltà e dell’esperienza complessa della metropoli. Dopo la felice miniatura Il pastore d’Islanda (2016), Iperborea manda ora in libreria la cupa favola L’uccello nero (nella efficace traduzione di Maria Valeria D’Avino, pp. 274, € 17,00), romanzo del 1929 che mette in scena un fatto di cronaca nera del quale i giornali avevano a lungo parlato.
In un remoto villaggio islandese alla fine dell’Ottocento, il narratore, un giovane sacerdote di nome Eiúlvur, pur dichiarando da subito la propria debolezza, si trova a indagare su un duplice delitto che scardina le certezze della dura vita agreste, legata ai cicli di una natura spesso ostile, laddove il pastore è spesso il primo interlocutore di una comunità umana travagliata. In essa, malgrado la devozione collettiva, rimangono ben radicate le superstizioni degli antichi culti, tra i quali quella illustrata dal titolo: l’arrivo di un uccello nero sopra una fattoria viene interpretato come immediato presagio di disgrazie.
Due coppie vivono nel luogo agricolo più isolato e lontano dalla collettività: il titanico Bjarni ha una moglie malata e lamentosa, Guorun, che parla solo del suo male al petto; la famiglia vicina è invece composta dal debole e irresoluto Jón sposato alla bella Steinunn. L’attrazione tra Bjarni e Steinunn diventa legame e da questa vicenda adulterina scatta l’azione omicida: Guorun viene avvelenata, Jón ritrovato senza vita su una spiaggia.
Di casa in casa, le voci attorno alla vicenda corrono fino a raggiungere il capoluogo della regione, dove un giudice, severa incarnazione di un principio di legge intollerante, ingiunge al sacerdote di indagare sul caso. La storia arriva al suo tragico epilogo: Bjarni viene condannato alla decapitazione. Fugge dal carcere per parlare una ultima volta con il sacerdote, si rifugia da un contadino povero che stima perché vada a lui la ricompensa della segnalazione alle forze dell’ordine, sicuro che lo tradirà. Steinunn invece muore di paura o pone fine ai suoi giorni e non si trova nessuno che voglia darle sepoltura. Il romanzo ha il suo perno nella rappresentazione di una giustizia umana che non è in grado di penetrare l’oscurità del cuore. L’indagine portata avanti dal sacerdote e dal giudice svela quanto sia inefficace il mezzo della punizione per rendere conto delle motivazioni profonde di un gesto.
La bandella di presentazione segnala questo libro come un antesignano del sempre più popolare noir nordico; per quanto delitto e indagine siano in primo piano, il nodo del racconto risiede piuttosto nella riflessione attorno al concetto di giustizia. Ecco la voce del sacerdote-detective: «Ognuno di noi prima o poi, che lo voglia o no, si trasforma in torturatore e assassino. Tutti inchiodiamo alla croce il figlio di Dio! In noi stessi e nel nostro prossimo».
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