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La guerra nascosta dietro vite ordinarie

La guerra nascosta dietro vite ordinarieScena da «Also Known as Jihadi», sotto il regista Eric Baudelaire

Cinema «Also Known as Jihadi» è il titolo del nuovo film di Eric Baudelaire in concorso al Fid Marseille. Il regista si affida ai soli atti processuali nel racconto di un giovane francese di famiglia algerina accusato di terrorismo

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 14 luglio 2017

C’è un bel vento che accarezza il cielo azzuro, il mare, le barche che dondolano pigre nel vecchio porto: Marsiglia, i colori della Provenza, l’odore del sapone si mischia a quello dei rifiuti, il gusto del pastis alla frittura che viene servita nei ristorantini del centro città. Il Fid si è appena inaugurato, le sale sono piene a tutte le ore eppure nelle stradine del Panier, il quartiere che si arrampica sopra al Mucem e alla bianca e boeriana (nel senso progettata da Stefano Boeri) Villa Mediterranée, ci guardano a noi festivalieri con le nostre tessere appese al collo in modo quasi interrogativo. «Bello – dice una giovane donna offrendo un bicchiere di vino – è la ventottesima edizione ma non l’ho mai sentito». Radicarsi nel territorio è certo difficile sempre e ovunque, e in una metropoli come questa stratificata, «a sfogliatella» (rubo alla descrizione di Napoli ma d’altra parte le mettono spesso vicino) ancora di più: tante realtà, tanti mondi, tante facce, tante immagini, degrado, quartieri caldi (quelli a nord), integralismi, gentrificazione, turismo.

Ecco, il Panier, per dirne una è cambiato, botteghine di lavanda e souvenirs tantissime ma può anche ancora capitare di venire invitati da chi si gode il fresco fuori a bere un bicchiere insieme pur non conoscendosi. Qualcuno però si lamenta che il turismo non è ancora partito, la sera molti ristorantini sono chiusi, altri sono andati in vacanza, intanto il trenino del tour «città vecchia» si inerpica tra i vicoli…

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Also Known as Jihadi è il titolo (competizione internazionale) del nuovo film di Eric Baudelaire il quale racconta che nella costruzione si è ispirato a A.K.A Serial Killer di Masao Adachi. Un legame artistico, questo col regista giapponese, sceneggiatore di Wakamatsu, che va indietro nel tempo, e che rimanda anche a un altro film di Baudelaire, L’Anabase, in cui il filmmaker francese andava in Libano per ritrovare i luoghi dell’esperienza di Adachi, arrestato in Giappone per la sua militanza nell’Armata Rossa Giapponese. AKA. A serial killer raccontava la vita di Nogo Narayama, serial killer di 19 anni che aveva ucciso molte persone in diverse parti del Giappone. Cosa racconta invece Baudelaire? L’inchiesta giudiziaria su un giovane francese di famiglia algerina accusato di terrorismo internazionale e jihad, Non lo vedremo mai come non vedremo mai nessuno degli altri coinvolti nella vicenda, il dispositivo di Baudelaire si affida infatti interamente agli atti processuali, mostrati sullo schermo, e alle riprese dei luoghi a distanza: scorci anonimi che seguono il cammino dell’accusato, la periferia francese dove è nato e cresciuto, l’Algeria delle origini, la Turchia da dove è entrato in Siria. Adachi la chiamava la «teoria del paesaggio», convinto che i luoghi con le loro strutture possono rivelare l’oppressione di cui si fanno portatori e i risultati di una politica sulle persone.

Abdel Aziz Makki è un combattente, uno dei tanti ragazzi francesi (ha 25 anni) che dopo il liceo, un tentativo di studi universitari, un po’ di disoccupazione e impieghi da fattorino o animatore del FranPrix (il supermercato), comincia a coltivare l’idea di partire per la Siria, di combattere, aderendo alla religione musulmana in modo assoluto, come la regola del combattente vuole.

Tabulati telefonici, testimonianze: da lì sappiamo che prova a convincere i suoi amici a raggiungerlo in Siria ma quasi tutti tornano indietro, hanno paura. Lui invece rimane. Alla sua storia se ne intrecciano delle altre, quelle dei due giovanissimi fratelli turchi, un ragazzo e una ragazza, quest’ultima diventerà la moglie di Abdel. Il padre dei due fratelli, anche loro cresciuti a Parigi, nella sua testimonianza prende le distanze dai figli, spiega che né lui né la moglie sono mai stati praticanti, che quando la figlia ha iniziato a frequentare ragazze velate lui l’ha rimproverata. Poi è scomparsa, destinazione Siria, mentre il fratello è il contatto francese di Aziz, gli permette di andare e venire dala Siria.

Anche la famiglia lo aiuta, la madre gli manda medicine e altro, lo coprono, lo sostengono… È strano perché più del «paesaggio» sono gli atti nella loro freddezza burocratica a parlare: ci dicono di vite ordinarie, di giovanissimi che cercano qualcosa, ma cosa? Perché la guerra, perché la jihad quando come nel caso della giovane moglie di Aziz nemmeno la famiglia impone la religione? Sentirsi importanti, sfidare i genitori, avere un scopo, sfuggire al grigio della pioggia e degli Hlm, opporsi alla frustrazione di lavori squallidi, a una società che ti mette al lato?

Domande più che risposte ma questo è l’interesse del film (montato con sapienza da Claire Atherton), perché ritornano, sono le stesse che pongono i ritratti degli attentatori di questi anni, Bataclan, Nizza, esattamente un anno fa. Interrogarsi allontanandosi da schemi facili – sociologici, stereotipi, ecc – è dunque più che un’esigenza. Sulla rappresentazione lavora il film (concorso internazionale) di Matias Ivanisin, coproduzione Slovenia e Croazia, Playing Men, ovvero le possibili iconografie del maschio e, tacitamente, il loro rovescio. Corpi che lottano, uomini al bar; sfide paesane a colpi di formaggio la cui forma viene fatta rotolare nelle stradine, un match di tennis ascoltato (Goran la gloria nazionale che batte McEnroe), gli aneddoti di un prete in Italia, gli sguardi (leggere a proposito il sempre intramontabile Saperci fare di Franco La Cecla).

Il progetto è ambizioso e soprattutto difficile, e dopo un inizio misurato sulla fisicità virile di muscoli e combattimento – anche violento – rischia il catalogo sadomaso compreso – apprendiamo tra l’altro che agli uomini piace il materasso acquatico perché prolunga il piacere. Infine però questa casistica maschile non si discosta dall’immagine che vuole rivelare, rimane sulla superficie senza un vero «controcampo».

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