Europa

La guerra in corso tra Draghi e i “falchi”

La guerra in corso tra Draghi e i “falchi”

Scenari Trasferimenti fiscali e un budget finanziario imponente sono necessari per la sopravvivenza dell'Eurozona. La partita con i tedeschi si gioca su questo terreno

Pubblicato quasi 10 anni faEdizione del 5 dicembre 2014

In questi giorni si sente spesso parlare di riforme, crescita, flessibilità e investimenti. Sarebbero stati discorsi molto utili nel 2010, quando si rivedeva la governance economica a Bruxelles senza che nessuno se ne accorgesse a Roma. Ma stiamo per entrare nel 2015 e come ha detto di recente Mario Draghi «il successo dell’unione monetaria dipenderà in ultima istanza dal riconoscimento che la condivisione di una moneta unica equivale a un’unione politica, e comportandosi di conseguenza». Sono queste le lapidare conclusioni di un discorso pronunciato dal Presidente della Banca Centrale Europea (Bce) più di una settimana fa. Purtroppo i giornali, occupati a decifrare l’esiguo piano d’investimenti di Juncker, non le hanno riportate. Eppure, leggendolo con attenzione, il discorso di Draghi suona come una vera e propria dichiarazione di guerra (intellettuale) ai falchi tedeschi, olandesi e finlandesi. Basta ripercorrere la sua diagnosi dello status quo per comprendere l’entità della sfida lanciata all’élite conservatrice di mezza Europa, per giunta in casa loro, all’Università di Helsinki.

Draghi inizia sottolineando che «la moneta unica», come tutte le «monete fiduciarie», è intrinsecamente parte di una «costruzione politica». Non è un artefatto di tecnici e banchieri centrali.
È il risultato di una deliberata scelta politica. Se l’unione monetaria non è stata spazzata via dalle potentissime correnti della finanza globale, che pure avevano puntato contro la sua tenuta all’inizio della crisi, è perché è stata «giudicata male la dimensione politica dell’euro, sottostimando i legami tra i suoi membri, e la quantità di capitale politico investito in esso».
L’ex governatore della Banca d’Italia ci spiega che qualora vi fossero parti della zona euro che stessero meglio al di fuori di essa, piuttosto che al suo interno, nascerebbero «dubbi sulla permanenza di questi paesi nell’unione … e si potrebbe compromettere la fungibilità della moneta; i depositi bancari e altri contratti finanziari in qualsiasi paese potrebbero incorporare un rischio di ridenominazione». In poche righe, Draghi stesso spiega, a chi ancore non le avesse capite, le ragioni della «crisi dello spread». Non era dovuta all’indisciplina fiscale, ma rispecchiava la percezione del rischio di uscita dalla moneta unica da parte degli operatori finanziari, il cosiddetto «rischio di ridenominazione».

Ma Draghi non si ferma qui. Ammette esplicitamente, ed in un documento ufficiale, che all’interno di qualunque unione monetaria sono necessari «trasferimenti fiscali permanenti». Questo è vero negli Stati Uniti, dove questi trasferimenti avvengono attraverso il bilancio federale. È vero in Germania, in Italia, in Finlandia. I trasferimenti fiscali, purché non siano eccessivi, spesso aiutano a cementare la coesione sociale e proteggono contro la tentazione della secessione. Difficile non leggere fra le righe un riferimento al rapporto Mac Dougall. Questo studio della Commissione Europea redatto nel lontano 1977 analizzava nel dettaglio la relazione tra bilancia dei pagamenti e trasferimenti regionali all’interno dei maggiori paesi europei. Nelle conclusioni constatava che in assenza di un budget comune di 7-10 punti di Pil l’unione monetaria era di fatto «impraticabile».

Draghi, ovviamente, queste cose le sa bene, ma deve ammettere che tali trasferimenti «non sono previsti all’interno della zona euro». Ci è dato solo immaginarlo, ma riteniamo che i falchi tedeschi capeggiati dall’influente economista Hans-Werner Sinn non manchino di farglielo notare. Hanno prodotto un’imponente mole di letteratura storica ed economica, allargato verso nuovi orizzonti la solida frontiera della ricerca ordoliberale, ma la loro posizione è pragmaticamente riassumibile in cinque parole: «Non con i nostri soldi». Ed i trattati Europei sono indubbiamente dalla loro parte. Al contrario di Kohl, i falchi tedeschi non volevano la moneta unica. In parte perché pensavano che fissare il cambio irrevocabilmente non fosse sostenibile per i paesi periferici, ma soprattutto perché non volevano assolutamente impegnarsi fiscalmente a mantenere quel cambio. A fronte delle insistenze del cancelliere tedesco (a sua volta strattonato da Mitterrand) cedettero, ma a dure condizioni: rigide regole fiscali (il trattato di Maastricht) ed esplicita esclusione dei trasferimenti fiscali dai trattati.

È anche per questo che Draghi riconosce immediatamente che il modello dei trasferimenti «non si applica per noi». All’interno dell’eurozona «abbiamo bisogno di un approccio diverso… questo significa approfondire l’integrazione finanziaria in modo da migliorare la condivisione del rischio privato». Di fatto si propone di delegare alla finanza il delicato compito di riequilibrio e redistribuzione delle risorse all’interno dell’unione monetaria – dunque, ci insegna Draghi, politica. Può sembrare un’idea stravagante, ma non è nulla di nuovo. Al contrario, si ripropone il sistema che ha tenuto in piedi la moneta unica nei suoi primi dieci anni di vita. Tra il 1999 e il 2009, l’integrazione finanziaria ha reso possibili flussi di capitali sempre crescenti dalle banche del centro (paesi che accumulano un surplus commerciale intra-eurozona) alle banche della periferia (paesi che accumulavano corrispondenti deficit commerciali), provocando la crescita esponenziale dell’esposizione verso l’estero nelle prime, e del debito privato nelle seconde. L’esito dell’esperimento nei cinque anni successivi lo conosciamo bene.

Non avendo funzionato in passato, ci sono validi motivi per ritenere che non potrà funzionare in futuro. Il primo e più evidente è che un prestito privato può essere complementare, ma non sostituto a un trasferimento pubblico. Il trasferimento non deve essere rimborsato, mentre il prestito sì (e con gli interessi). Il secondo, forse più complesso e dibattuto, riguarda la natura stessa del settore privato. Non possiamo essere certi che i mercati finanziari siano stabili ed efficienti. Senza scomodare giganti del pensiero economico, ci limitiamo a sottolineare che è possibilissimo – e la storia recente lo dimostra – che un prestito privato vada ad alimentare bolle nell’economia reale (settore immobiliare) o in quella finanziaria (derivati e asset-backed securities), generando un differenziale di inflazione all’interno dell’area euro che è difficile, se non impossibile, riassorbire in seguito allo scoppio della bolla stessa. Le cosiddette riforme strutturali dovrebbero portare a una migliore allocazione del capitale e della forza lavoro, ma sicuramente non eliminano questi due problemi, anzi in alcune circostanze li amplificano.

La questione di fondo è che i trasferimenti fiscali – e dunque un budget comunitario imponente – sono strettamente necessari per la sopravvivenza dell’eurozona. Dopo aver dato prova di straordinaria lucidità e coraggio nella diagnosi, sorprende che Draghi insista su una cura apparente e già ampiamente discreditata. Ma il dibattito a Francoforte è più vivo che mai. Sull’elemento chiave della centralità dei trasferimenti, la sfida politica ed intellettuale è stata lanciata con precisione, forza ed eleganza. Se i falchi tedeschi l’avranno vinta, il presidente della Bce, ormai entrato nel quarto anno di mandato, non potrà che trarne le conseguenze. Forse è una coincidenza, ma tra non molto si potrebbe liberare una poltrona importante a Roma.

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