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La guerra, il regime, la rivolta. Irresistibili incontri con la Storia

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Cinema È scomparso a novant’anni Andrzej Wajda, il maestro del cinema polacco Palma d’oro nell’81 con «L’uomo di ferro»

Pubblicato circa 8 anni faEdizione del 11 ottobre 2016

Immortale Wajda. Sembra essere un dettaglio la sua scomparsa avvenuta domenica 10 ottobre a Cracovia all’età di novant’anni. La sua vita è stata infatti caratterizzata da continue rinascite, una serie di rinnovamenti stilistici, di pensiero, di anticipazioni dei tempi nuovi. Aveva la tempra del combattente dell’arte. «Finché siamo in vita la Polonia non è perduta» si canta nell’inno nazionale, lo abbiamo annotato da qualche parte, una frase che oggi assume il valore di un messaggio, poiché l’artista è stato per il suo paese un vate, un punto di riferimento per nuove generazioni e per la classe operaia quando si fece sentire ai tempi di Solidarnosc, tanto da spalancargli i cancelli delle fabbriche occupate perché potesse filmare.

Ci raccontò, venuto in Italia a presentarlo (e a incontrare Wojtyla appena diventato papa) la storia dell’Uomo di marmo distribuito in Italia grazie al coraggio di un cineclub (la Lab 80) quando già era un regista considerato un monumento del cinema per i film realizzati nel dopoguerra. La sceneggiatura del film che sconvolse il paese e per cui si fecero a Varsavia interminabili file di spettatori inaugurando una stagione al cinema come assemblea permanente, aveva dovuto tenerla chiusa nel cassetto per quindici anni, progetto a lungo censurato. La storia di Birkut, l’operaio stakanovista e della regista altrettanto ostinata nel raccontarne le vicende fu vista a Varsavia solo nei primi mesi da tre milioni di persone, tornarono perfino di moda le canzoni dell’epoca. E fu un’opera preparatoria al clima che sarebbe esploso subito dopo (ne fece un seguito più legato all’attualità, L’uomo di ferro, Palma d’oro a Cannes ’81).

Il «realismo socialista», ci raccontava, non aveva neanche scalfito il cinema polacco, tanto potente era stata la fioritura nel dopoguerra di film nati sotto l’influsso del neorealismo italiano, i primi film che arrivavano dall’occidente (insieme a Citizen Kane che lo folgorò). Dopo i grandi nomi della vecchia guardia (Jakubowska, Alexander Ford) si era affacciata sulla scena «il nuovo cinema polacco», ne fece parte anche Wajda con Kawalerowicz, Haas, Munk, tutti provenienti dalle Belle Arti, che la guerra l’avevano vissuta da adolescenti. Wajda, figlio di un ufficiale di cavalleria, raccontava di come avesse seguito il padre nelle sue diverse guarnigioni.                        

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Sembrava però che mai avrebbe potuto raccontare il suo autentico vissuto, l’eccidio di Katyn: lo fece solo parecchi anni più tardi, nel 2007. Gli piaceva invece raccontare che pochi come lui avrebbero potuto assistere da vicino alle parate, agli assalti alla sciabola o osservare gli istruttori di cavalleria in azione: parecchi suoi film ne riporteranno tracce evidenti. «Un giorno forse racconterò la storia di questa guarnigione sperduta in un remoto posto di provincia» prometteva, e non si trattò in Katyn di una rievocazione malinconica dei tempi andati, ma del massacro di 22 mila ufficiali e soldati polacchi, una fossa comune scoperta nel ’40, ordinato dal commissariato governativo sovietico, responsabilità ammessa solo nel 1990. Tra quegli ufficiali c’era anche il padre di Wajda, Jakub.

Il romanticismo, la lirica bellezza dei suoi film sono resi ancora più affascinante dal gusto dell’esplorazione, dalla scoperta di mitologie sconosciute (Zbigniew Cybylski). Via via si svelavano elementi di un affresco storico (gli eroi votati al martirio, i poeti, gli episodi oscuri del passato…), bisognava leggere tra le immagini le allusioni di quei film memorabili del dopoguerra: Pokolenie (Una generazione, 1954) il film di una resistenza divisa tra due potenze, secondo l’esperienza della generazione del regista, Kanal (I dannati di Varsavia, 1957), l’insurrezione iniziata nelle fogne da una compagnia di uomini che da agosto a settembre del 1944 è destinata al massacro mentre i sovietici assistono al di là del fiume senza intervenire e gli alleati non arriveranno mai.

Popiol i diament (Cenere e diamanti, 1958), che si svolge nel primo giorno di pace dopo la guerra dove Cybulski interpreta Maciek, nazionalista incaricato di assassinare il capo della resistenza comunista. La sfrontatezza di mettere in scena un eroe «negativo» con le memorabili scene dell’hotel Monopol in ricordo della battaglia di Montecassino supererà ogni confine indicando nuove strade ad altre cinematografie all’est, icona che amplifica i tratti della gioventù senza causa del dopoguerra.
Eppure con la nuova epoca dei Sessanta non c’è grande sintonia, intanto è comparsa sulla scena la terza generazione di cineasti e Cybulski nel ’67 è stato travolto da un treno che cercava di prendere al volo. È finita una parte della sua vita, ma non mancano nella sua filmografia racconti che toccano la trasformazione del paese ed entra nei suoi film un altro volto che sarà la sua nuova musa, il diciottenne Daniel Olbeychski che interpreterà i film della sua vera fonte di ispirazione legata alla storia, ai grandi affreschi, all’epopea, dal grandissimo Wesele (Le nozze, ’72) a Ziema Obiecana (La terra della grande promessa, ’74).

L’incontro con la generazione di Solidarnosc lo costringerà a cambiare la prospettiva dello sguardo dove lui sarà il punto di riferimento con il gruppo di produzione X, che apriva le porte ai giovani interessati agli eventi politici come l’attrice Krystina Janda, Agniewska Holland che è stata sua assistente, sceneggiatrice e spirito critico. Il governo nell’83 chiude il Gruppo X e sospende Wajda dalla carica di presidente dei cineasti polacchi: «Ho fatto per venticinque anni film il cui messaggio e scopo era di non lasciare che si stabilizzasse una situazione come quella che si è verificata nel mio paese dal 31 dicembre 1981. Quello che è successo è una mia sconfitta personale». Quindi cala il silenzio, il Danton che gira a Parigi nell’82 è il gelido resoconto del precipitare di una situazione.                                                        

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Con gli anni Novanta il cambio di scena, le tante onorificenze (Leone d’oro alla carriera nel ’98, Oscar alla carriera nel 2000, Orso d’oro alla carriera nel 2006) e poi ancora i grandi film: L’uomo della speranza, dove si ripercorrono gli scioperi di Danzica del 1970 fino alla caduta del muro di Berlino attraverso la figura di Walesa, Pan Tadeusz, l’epopea nazionale di Adam Mickiewicz, Katyn, che sembrva essere un punto finale, il regolamento di conti definitivo. Ma l’ultima parola l’ha detta con Powidoki (Afterimage) l’affermazione di libertà dell’artista.

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