La guerra di John & Yoko
Cinquant’anni fa, il primo giugno 1969, Lennon registra quello che ancora oggi è considerato l’inno pacifista per antonomasia, «Give Peace a Chance»
Cinquant’anni fa, il primo giugno 1969, Lennon registra quello che ancora oggi è considerato l’inno pacifista per antonomasia, «Give Peace a Chance»
Fu l’ultima provocazione possibile, per gli anni Sessanta del rock e delle avanguardie, che pure di provocazioni avevano fatto ricerca, incetta e rilancio sistematico. Unendo con un colpo di teatro spiazzante, semplice e decisivo il gusto della performance, l’azzardo della comunicazione diretta che più diretta non si può, e la musica, riportata quasi a un grado zero di elementarità. L’opposto della sofisticazione in cui lentamente era scivolato il sempre più sfaccettato mondo della popular music, almeno a far data dalla metà degli anni Sessanta, con quella slavina di idee che stava traghettando il rock, da forma basica di rivolta vissuta col corpo, a raffinata danza mentale per cervelli scafati e recettivi da gustarsi sui dischi. L’ultima provocazione possibile diede in eredità al mondo una canzone che oggi è inserita nelle cinquecento che, traduciamo qui la motivazione dalla Rock’n’Roll Hall of Fame, «diedero forma al rock’n’roll»: Give Peace a Chance, e che continuerà per tutti gli anni a venire a significare «pace». L’opposto della sorte che toccò all’uomo che la scrisse, undici anni dopo: ucciso dalle pallottole, esattamente come uno dei fantaccini a stelle e strisce mandato a morire senza un perché nelle paludi del Vietnam.
BED-IN
La provocazione che sortì uno degli inni pacifisti più diretti si chiamò Bed-In. A tradurlo, qualcosa come «accomodatevi, noi siamo a letto», giocato in assonanza con Sit-In, le manifestazioni non violente e Be-In, «Esserci», rivolto alla pletora di giornalisti che fiutavano qualcosa di osceno e di morboso, magari qualche scatto piccante, buon peso, per la luna di miele passata a letto e con ospiti vari dalla coppia più famosa al mondo, in quel momento. John Lennon e Yoko Ono. Si erano sposati il 20 marzo, poco dopo l’altro matrimonio importante e simmetrico, quello di Paul McCartney con la fotografa americana Linda Eastman, e il primo Bed-In se l’erano inventati nella suite presidenziale dell’Hilton Hotel di Amsterdam. Iniziò il 25 marzo, e continuò fino al 31. A Montreal il Bed-In partì il 26 maggio: Lennon avrebbe preferito gli Usa, ma lì c’erano guai ad attenderlo per storie con la giustizia dell’anno precedente, possesso di marijuana.
Al Queen Elizabeth Hotel la coppia era costantemente in pigiama, e non certo per alludere a un seguito di scintille erotiche. Al contrario, capovolgendo il senso del farsi trovare sempre a letto, stigma della pigrizia e del «non» fare compreso nella scelta. Chiudersi in una stanza per, a rovescio, usare quello spazio chiuso come microfono aperto sul mondo, emittente planetaria per rilasciare interviste e dichiarazioni. Successe anche che, a domanda diretta di uno degli intervistatori, John Lennon rispose, di getto, che il senso finale e unico dei Bed-In era «dare una possibilità alla pace».
OSSESSIONI
La frase aveva piantato un seme ossessivo nella mente prensile del Beatle, in quel momento tutt’altro che coinvolto nelle vicende del gruppo pop più celebre della storia. Così andò a finire che molte, molte persone fra quelle che affollavano la stanza dell’hotel canadese si trovarono un John Lennon con la chitarra tra le braccia, a cantare la semplice ma efficacissima linea melodica del «dare una possibilità alla pace». Niente di più, niente di meno. Che era l’ossessione sua e di Yoko, e che nella presa di posizione decisa ma scabra, senza alcuna maschera ideologica, rappresentava per Lennon un modo per riprendere e domare una volta per tutte l’ambiguità lasciata poco tempo prima in una canzone cruciale per i Beatles, Revolution, sul leggendario White Album. Lì, com’è noto, Lennon oscillò nel cantare il testo a proposito della rivoluzione del ’68 che incendiava il mondo, tra un «count me out» e un meno evidente «count me in»: non contate su di me e invece, sovrapposto, un «contateci». Alla fine John la incise, Give Peace a Chance, il primo giugno, sempre più convinto di dover fornire una visibilità «popular» al movimento pacifista con la sua presenza carismatica, e un segnale forte nel momento in cui le truppe americane inviate in Vietnam avevano toccato un preoccupante picco di oltre mezzo milione di uomini.
I bombardamenti e il napalm avevano cominciato a straziare anche Laos e Cambogia. Per incidere la canzone si fece prestare per la stanza d’albergo un registratore multipista dalla André Perry Studios e quattro microfoni. Chi era presente (e vedremo che non erano nomi qualsiasi) fu invitato a unirsi ai cori. Di sicuro parteciparono Phil Spector, Allen Ginsberg, Timothy Leary. In una botta, e rispettivamente, l’uomo che aveva rivoluzionato il modo di incidere la musica rock creando in studio quello che da allora venne definito il «muro di suono», il poeta dell’Urlo controculturale della Beat Generation che aveva sedotto tutta la Swingin’ London, Beatles compresi naturalmente, il profeta e psicologo delle derive lisergiche e psichedeliche e dei light show come nuova parte costitutiva dei concerti rock, assieme alla moglie.
RADUNI
Ma c’erano anche il rabbino Abraham Freiberg, il professor Joseph Schwarz, Allan Rock, all’epoca presidente della Federazione degli studenti universitari di Ottawa, la cantante e attrice Petula Clark, l’attivista Dick Gregory, il fumettista Al Capp: non esattamente uno spirito «liberal», se è vero che con Lennon, caso unico, finì a male parole. E poi, Tommy Smothers, comico e musicista, Murray Kaufman detto Murray K, uno dei più noti dj statunitensi, giornalisti, cineoperatori, la sezione canadese del Radha Krishna Temple. Infine Dick Taylor, che già in passato aveva lavorato coni Beatles, per poi occuparsi di Byrds, Beach Boys, del primo grande raduno rock prodromo a Woodstock, Monterey, per tornare poi in forze ai Fab Four come addetto stampa della nuova Apple Records, l’etichetta con il simbolo della Mela scelta da Paul McCartney per testimoniare il suo costoso hobby di collezionista esperto di quadri di Magritte.
Il disco esce il 4 luglio 1969: il testo è piuttosto sconnesso, di per sé, un’ennesima petizione di principio lennoniana a non farsi chiudere nelle etichette ideologiche o modaiole, e un elenco di persone citate, da quelli che parteciparono ai cori a un certo «Bobby» Dylan. Quello che resta in testa è il micidiale «hook» melodico, l’orecchiabilità perfetta di quella frase ripetuta: «All we are saying, give peace a chance». Da notare, ancora, che il disco esce come Plastic Ono Band, ma gli autori indicati, come da tradizione beatlesiana, sono John e Paul McCartney, rispettando il vecchio patto. Con in più un implicito ringraziamento a «Macca» per averlo aiutato a incidere con lui The Ballad of John & Yoko, uscito il 30 maggio precedente.
Give Peace a Chance divenne, subito, uno dei brani più cantati nelle manifestazioni pacifiste: il 15 novembre ’69 al Washington Monument è in corso il Vietnam Moratorium Day. Il cantore radical del folk Pete Seeger guida il coro di centinaia di migliaia di persone sul brano di Lennon. E affronta di petto la questione cruciale, gridando nel microfono prima di ogni ritornello: «Ci stai ascoltando, signor Nixon?». Da parte sua, John porterà di lì a poco la canzone su un palco, con Yoko a Toronto, il 13 settembre, per il Toronto Rock’n’Roll Revival Concert, un concerto convulso e teso riproposto anche su disco, Live Peace in Toronto 1969. All’ultimo verso, John dimentica la sequenza di nomi usata nel 45 giri, e infila a casaccio chi gli viene in mente: Roosevelt, Eric Clapton, che è lì con lui sul palco, la Penny Lane luogo magico beatlesiano, «Dirty Trick» Nixon. L’8 dicembre 1980 Lennon è assassinato a New York. Qualche giorno dopo, centinaia di fan lo salutano dove si è accasciato scegliendo di cantare Give Peace a Chance.
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