La guerra di Indipendenza che inventò gli americani
Storia Solo l’esigenza di combattere un nemico comune fece mettere in secondo piano le enormi differenze economico-sociali e politiche fra le tredici colonie: questa la tesi di Alan Taylor in «Le rivoluzioni americane»
Storia Solo l’esigenza di combattere un nemico comune fece mettere in secondo piano le enormi differenze economico-sociali e politiche fra le tredici colonie: questa la tesi di Alan Taylor in «Le rivoluzioni americane»
La Guerra d’indipendenza americana, atto di nascita degli Stati Uniti d’America, è stata a lungo raccontata dalla storiografia, ma anche dalla letteratura e dal cinema, come la rivoluzione vittoriosa del popolo americano, unito e determinato, contro il tirannico dominio britannico. Ma, soprattutto, è stata tradizionalmente narrata in contrapposizione alla rivoluzione francese e, in controluce, a quella russa: se queste sono state segnate dalla tragicità della violenza e da una radicalità politica smisurata, capace di condurre a esiti inumani, la prima è stata per lo più presentata come una rivoluzione moderata, positiva, portatrice di valori universali, non guastati dall’assolutezza ideologica.
Più conflitti convergenti
Ora, il nuovo libro di Alan Taylor, Rivoluzioni americane Una storia continentale 1750-1804 (Einaudi, pp. XII-640, euro 35,00) smonta completamente, e con buoni argomenti, queste rassicuranti certezze. Taylor, autorevole storico dell’università della Virginia, già vincitore di due premi Pulitzer e di un National Book Award, ha scritto infatti un’opera programmaticamente revisionista, sin dal titolo: l‘uso del plurale rivoluzioni al posto del singolare vuole segnalare subito come l’evento di cui si parla non vada considerato come risultato di un conflitto a senso unico, quello di un popolo oppresso che si scrolla di dosso un ingombrante oppressore, bensì come una sorta di punto di convergenza di una serie di conflitti diversi e non omogenei fra loro; la cronologia qui utilizzata, poi, estesa agli anni 1750-1804, significativamente slargata rispetto agli anni veri e propri della guerra d’indipendenza, combattuta tra il 1775 e il 1783, va anch’essa controcorrente; l’aggettivo continentale, infine, segnala un significativo allargamento spaziale, abbracciando anche gli avvenimenti del Canada, della Louisiana e dei grandi spazi del West e le politiche degli imperi concorrenti: francese e spagnolo.
Il risultato di questo riposizionamento è felice. Decostruita la lettura nazionalistica, che vorrebbe la rivoluzione americana come prima manifestazione di un popolo americano già esistente – la sua epifania – Taylor porta a considerarla, viceversa, come l’essenziale processo di gestazione che ne forgia la fisionomia e ne determina la nascita. In verità, un parto doloroso: a scontrarsi non furono solo l’esercito americano e quello inglese ma anche sezioni contrapposte della società americana.
Da una parte i patrioti, una minoranza radicale e dall’altra i lealisti filo-britannici, un’altra minoranza ancor più esigua, con in mezzo la maggioranza di una popolazione a lungo indecisa. Sarà anzi proprio la lunga guerra, distruttiva e tragica – non limitata cioè ai combattimenti degli eserciti schierati, ma fatta di saccheggi, devastazioni e repressioni che colpivano la popolazione civile – a determinare l’orientamento maggioritario a favore del fronte patriota; e comunque, alla fine del conflitto, ben 60.000 lealisti fuggiranno dal paese come esuli.
La cosiddetta Guerra d’Indipendenza è stata in realtà, ci dice Taylor, come tutte le rivoluzioni, una guerra civile, e anzi la prima guerra civile americana. Quando, nel 1777, il Congresso adottò gli articoli di Confederazione e Unione, essi furono più una temporanea alleanza di stati che l’espressione di una nazione coesa. Solo l’esigenza di combattere insieme un nemico comune e soverchiante fece valere gli elementi condivisibili a scapito delle enormi differenze economico-sociali e politiche fra le tredici colonie.
Le conseguenze di questo orientamento sono importanti: non sono gli americani ad avere fatto la rivoluzione ma è la rivoluzione ad avere «inventato» gli americani. Una testimonianza di Benjamin Franklin del 1775 è rivelatrice: «non ho mai sentito in nessuna conversazione qualunque persona, ubriaca o sobria, manifestare la minima espressione di desiderio di secessione, o l’opinione che una tale manovra possa essere positiva per l’America».
All’epoca in cui questa frase fu pronunciata il conflitto armato si era già – in modo strisciante – avviato, ma si presentava come la somma di una serie di contrasti su questioni nodali agitate dai patrioti contro le pretese del parlamento britannico di intervenire negli affari americani, e non come la richiesta di una sovranità autonoma. In gioco c’era, certo, lo statuto costituzionale delle colonie e la contestazione americana di tasse imposte da organismi privi di propri rappresentanti (secondo lo slogan No taxation without representation) ma non solo.
Meno indagati dalla storiografia sulla guerra d’Indipendenza, ma non per questo meno importanti, almeno due altri temi scottanti erano sul tappeto. Il primo era relativo alle terre delle popolazioni indiane, l’immenso spazio libero al di là della catena dei monti Appalachi, il famoso West con la sua mitica frontiera mobile, in perenne avanzamento. Se la causa dei Sons of liberty ebbe successo fu anche grazie all’incerta gestione inglese delle terre d’occidente occupate dalle tribù dei «pellerossa»; una linea oscillante fra il precipitoso tentativo di frenare la spinta alla colonizzazione, le impopolari concessioni a franco-canadesi cattolici e le pratiche di appalto di intere zone a un ceto di accaparratori di terra corrotti e inaffidabili. Non per caso gli indiani dell’ovest combatterono largamente a fianco degli inglesi mentre i pionieri coloni si schierarono in maggioranza con i patrioti.
C’è poi la questione degli schiavi neri. La posizione dell’opinione pubblica inglese era avversa al regime di schiavitù, contrario alla tradizione liberale cui essa si ispirava. Fu famosa la causa vinta davanti a un tribunale inglese da uno schiavo di Boston portato in Inghilterra: questi aveva sostenuto che, una volta in Gran Bretragna, andava affrancato perché su quel suolo la schiavitù non è ammessa e gli schiavi che lo calcano divengono ipso facto uomini liberi. Ancora una volta la posizione oscillante del governo britannico, incapace di promulgare un editto di affrancamento degli schiavi neri ma tendenzialmente favorevole ad ascoltare le ragioni della popolazione afroamericana in catene, e giunto perfino a minacciarne la liberazione, produsse un esito simile: mentre diverse migliaia di schiavi in fuga si arruolarono per combattere a fianco delle truppe di Sua Maestà, gran parte del ceto di proprietari di piantagioni del sud finì per sposare la causa patriota.
Principi e negati
La contrapposizione partitica successiva fra i federalisti alla Hamilton e i repubblicani alla Jefferson, trattata nell’ultima parte del volume, non è di conseguenza che l’esito e lo specchio di questo insieme di contraddizioni, che continueranno a segnare, almeno fino alla guerra civile – tra il 1861 e il 1865 – la vita politica statunitense. Tra esse ce n’è una trattata dal libro con garbo e ironia: vale a dire la distanza irrisolta tra gli enunciati che innervano l’autorappresentazione della libertà americana e la prassi politica concreta. Mentre la proclamazione universale dei diritti faceva della rivoluzione americana il caposaldo di una nuova legittimità centrata sul potere popolare e sul diritto inalienabile di ciascuno alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità, nella pratica questi principi erano negati agli indigeni americani, espropriati di tutto, e agli schiavi neri, mantenuti in catene.
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