La guerra del rock per i Zen Circus
Intervista Il nono album del trio toscano in uscita il 23 settembre è forse il più accattivante, ma l’ascolto delle dieci tracce matura un orizzonte decisamente più ampio. Tanti spunti sull’Italia malata: «C’è chi con la musica offre conforto, noi provochiamo. Non siamo una band politica ma amiamo il grottesco»
Intervista Il nono album del trio toscano in uscita il 23 settembre è forse il più accattivante, ma l’ascolto delle dieci tracce matura un orizzonte decisamente più ampio. Tanti spunti sull’Italia malata: «C’è chi con la musica offre conforto, noi provochiamo. Non siamo una band politica ma amiamo il grottesco»
L’integrità e lo stato di salute di una band lo si riconosce anche dalla libertà con cui decide di sorprendere con la precisa scelta di divertirsi. Un anno di lavoro in sala con 44 pezzi per registrarne 10 che diventano La terza guerra mondiale (La Tempesta), il nono album degli Zen Circus in uscita il 23 settembre. Un disco che non si concede al primo ascolto o a una fruizione veloce, in macchina, ma che richiede attenzione per quella che potrebbe apparire semplicità di composizione, senza ombre, che invece con il girare delle tracce matura in un orizzonte più ampio, quello di comprensione di un prodotto che nella sua anomalia per gli Zen, risulta l’ennesimo impulso critico e sonoro.
Se lavori riuscitissimi come Villa all’inferno e Andate tutti affanculo avevano il rock, il folk e il punk, qui emergono energiche tonalità pop che non rallentano mai, e ciò che il frontman Appino, con accento toscano, definisce la scuola degli Zen: il college rock. «È stato un risultato fortemente voluto dalla band, se si prende Doctor reductio (disco del 2003 con i testi in inglese, ndr), c’eravamo approcciati a un certo tipo di rock americano che in seguito abbiamo unito al cantautorato con testi in italiano. Questa volta desideravamo confrontarci con un disco più pop, gli Zen esistono dal ’97 e non volevamo farci trovare lì dove eravamo attesi. Durante le prove le chitarre acustiche sono state accantonate quasi involontariamente per un suono moderno, dal taglio rock e meno garage del passato».
Si guarda indietro andando avanti, sembra infatti ci siano dei synth, eppure Appino, che oltre a scrivere e suonare sta anche dietro al mixer, ha svolto un lavoro di alchimia e puro artigianato: «Direi un lavorone di chitarre elaborate, filtrate, addirittura in Zingara quello che sembra un synth sono voci settate. Tutto nasce da voce, basso, batteria e chitarra. Già che in ogni nostro disco c’è l’organetto, abbiamo giocato a fare degli archi con le chitarre».
Nei testi tanti spunti sull’Italia di oggi: il razzismo, la provincia morente, i valori della famiglia difesi dagli invasori. La provocazione del disco è che una terza guerra mondiale permetterebbe di ridare un senso autentico al vivere quotidiano, per fare tabula rasa e ricominciare: «Siamo la terza generazione che non ha mai visto una guerra in casa, festeggiamo il 25 aprile come un matrimonio forzato, dalla tastiera siamo cattivi, c’è una grande voglia di sangue digitale. Già tanti artisti si occupano di raccontare di quanto la vita è meravigliosa e che con la musica offrono conforto, gli Zen si occupano dell’altro lato, dello scontro e di provocare. E poi siamo toscani, più ci si vuole bene più ci si prende in giro, senza prenderci sul serio.
Però la nostra provocazione è anche paura per una terza guerra mondiale già in corso, fatta di capitali, di esseri umani che non contano. Non siamo una band politica ma ci piace il grottesco e allora domandiamo: quanto ci farebbe bene una bella guerra mondiale vera, non quelle fatte di migranti e popoli meno importanti, quelle in cui non puoi uscire di casa perché c’è un cecchino?».
Appino e la sua band, in questo senso, sono riusciti a trovare un equilibrio fra la sensibilità e la rabbia, un po’ meno con l’appellativo indie: «Per fortuna davanti casa mia a Pisa c’era il centro sociale Macchia Nera in cui a 12 anni prendevo il tè con i Fugazi. Ero la mascotte di questo mondo, del postpunk, del Do It Yourself. Nell’indie originale c’era un certo tipo di filosofia che corrispondeva alla passione, per questo pubblichiamo con La Tempesta, perché ne condividiamo il modus operandi. A livello editoriale siamo Sony da tanti anni e ogni tanto qualche fan dell’indie storce il naso per la collaborazione con una major, come se essere indie fosse un sinonimo di piccoli, ma noi facciamo ciò che vogliamo, consci che le nostre canzoni non passeranno mai nei grandi network radiofonici, ma non ci preoccupa. L’indie non esiste più dal ’91, da quando è uscito Nevermind. Non c’è una scena, al limite c’è una moda, ci sono tante esperienze singole e con alcune ci troviamo in sintonia, come I tre allegri ragazzi morti, il Teatro degli orrori o i Ministri. Sicuramente per anzianità (ride, ndr)».
Malgrado un anno a New York e tante altre città, Appino torna sempre a Livorno dove vive davanti al mare e dov’è ambientato il video del singolo L’anima non conta: «La provincia è una scelta pure se quando vado a Roma o Milano mi diverto tantissimo. Sono provinciale, necessito di un posto che, quando giro in bicicletta, so che a un certo punto la città finisce, ho bisogno di avere davanti una selva d’acqua che mi tranquillizzi. E del mio quartiere dove il fornaio mi chiede: hai suonato, t’hanno pagato? Insomma di un certo tipo di quotidianeità».
Ed è fra Livorno e Pisa che la banda dei tre Zen che, dopo vent’anni, scrive e suona insieme: «Continuiamo a litigare ma sono i miei migliori amici, e non è scontato dopo tanti cambiamenti. C’è chi ha figli, ma una delle più grosse fortune della mia vita è sicuramente potermi ritrovare con chi ho cominciato questa storia, magari al mare mentre ci facciamo pettinare i capelli dal vento e dalle cartelle di Equitalia (ride, ndr). Comunque con tutti i pezzi buoni che abbiamo cinicamente escluso, il prossimo disco uscirà molto prima del previsto…».
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