La guerra Calenda-Emiliano si deciderà a marzo
Vertenza Infinita Calenda ha messo sul tavolo una pistola scarica: senza sospensiva spegnere è illogico. Arcelor Mittal tiene il basso profilo: per gli indiani il vero rischio è lo stop da Bruxelles
Vertenza Infinita Calenda ha messo sul tavolo una pistola scarica: senza sospensiva spegnere è illogico. Arcelor Mittal tiene il basso profilo: per gli indiani il vero rischio è lo stop da Bruxelles
«Siamo in mezzo a due pazzi scatenati». La battuta comune di un sindacalista e di un dirigente del ministero dello Sviluppo riassume bene lo scenario della vertenza Ilva. Da una parte Michele Emiliano che non ne vuole sapere di ascoltare l’appello ormai generale a ritirare il ricorso al Tar; dall’altra Carlo Calenda che con la sua sparata sullo spegnimento dell’acciaieria di Taranto il 9 gennaio ha gettato benzina sul fuoco invece di ricucire mettendo sul tavolo una pistola per niente fumante che si va incagliando ogni giorno di più. Nel mezzo tutto il resto, in rigoroso ordine di rilevanza: i cittadini di Taranto, i 20mila lavoratori dell’Ilva tra diretti e in appalto, i sindacati, Arcelor Mittal. Un elenco che però si può tranquillamente allungare con gli altri attori in gioco: il governo italiano, la Commissione europea, l’Antitrust europeo.
La mediazione lanciata ieri di Paolo Gentiloni potrà cambiare il quadro? Nessuno ci crede veramente. Prendere in mano direttamente a palazzo Chigi la vertenza può smussare qualche spigolo, ma il presidente del consiglio – a fine legislatura – non può prendere il posto del ministro che ha imbastito tutta la trattativa né accontentare le richieste di Emiliano per ritirare il ricorso al Tar: modificare l’Aia al ministero dell’Ambiente trattando con le istituzioni locali i termini di una nuova (sarebbe la terza) Autorizzazione integrata ambientale. Al momento si tratta di pura fantascienza. All’opposto è impossibile che sia il sindaco di Taranto Rinaldo Melucci che Emiliano facciano marcia indietro per il solo fatto che a chiederglielo sia il presidente del consiglio di un governo ormai dimissionario. «Manca solo che ci provi il papa», si scherzava ieri a via Molise. Il prolema infatti è che la pistola di Calenda – «se non ritirate il ricorso al Tar e il Tar inizia a discutere il 9 gennaio si dovrà spegnere l’acciaieria» – è scarica. Le cose infatti non stanno così: tolta dal ricorso la richiesta di sospensiva cautelare (bloccare il Decreto della presidenza del consiglio dei ministri di settembre con il nuovo piano ambientale), la «minaccia» di Calenda non regge. Il Tar si prenderà il suo tempo per decidere – almeno due mesi – e anche se dichiarerà illegittimo il decreto potrebbe prevedere modifiche senza mandare a monte tutto il piano.
Il basso profilo scelto da Arcelor Mittal ieri al tavolo e più in generale in questi giorni – in molti si aspettavano dichiarazioni preoccupate o addirittura contro Emiliano da parte del gruppo franco-indiano che si è aggiudicato il gruppo Ilva – è spiegabile proprio con la prudenza dettata da una situazione sempre più intricata. La posizione del gruppo franco-indiano sul piano ambientale è chiara: noi investiamo 2,2 miliardi, se la cifra aumenta non la paghiamo noi. L’en passe è facilmente superabile per Emiliano: «Garantisca lo Stato per Arcelor». La risposta di Calenda altrettanto: «Non possiamo».
Marzo dunque sarà il mese decisivo. Oltre al verdetto del Tar della Puglia ne arriverà uno molto più sentito dal gigante franco-indiano dell’acciaio: quello dell’Antitrust europeo. Una authority che ha già cambiato gli assetti societari della cordata Am InvestCo chiedendo a Marcegaglia di vendere la sua piccola quota, quel 15 per cento che non è mai stato contabilizzato e che verrà acquisito da Cassa depositi e prestiti concretizzando il rientro del «pubblico» nella partita, storica richiesta della Fiom Cgi. Molto più temuto e pesante sarà il verdetto sulla probabile posizione dominante di Arcelor Mittal in Europa: l’Antitrust potrebbe addirittura vietare al gigante franco-indiano di comprare Ilva o in alternativa di dover vendere altre acciaierie disseminate sul continente, rendendo molto meno «un affare» l’acquisizione di Taranto.
In tutto questo risiko di caselle e tempistiche, Emiliano ha dunque buon gioco a mantenere la posizione e a sfruttarla anche in chiave di seggi da richiedere come corrente al suo partito, quel Pd che in questi mesi non ha letteralmente capito che pesci pigliare e anche oggi si limita – prima con Renzi e poi con Gentiloni – a proporre mediazioni di metodo, senza mai entrare nel merito delle questioni. Terrorizzato dalla possibilità che Emiliano non faccia campagna elettorale portando ad una vera debacle in tutta la Puglia.
I sindacati in questi giorni con accenti diversi si sono compattatati contro Emiliano, specie dopo la sparata contro «la poca rappresentatvità a Taranto» – un nervo scoperto reale anche per gli scandali che hanno coinvolto Fim, Fiom e Uilm negli anni precedenti lasciando spazio ad Usb e al «Comitato Liberi e pensanti» – ma sono gli unici che sembrano pensare al destino dei 20mila lavoratori che rischiano di pagare la «guerra totale fra i due pazzi scatenati».
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