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La grazia perduta del Boscimani

La grazia perduta del BoscimaniManandAnimals Tcega, dalla mostra sull’arte del Kalahari alla Gravers Lane Gallery, Londra

Antropologia In un saggio di grande eleganza stilistica, scritto nel 1961, l’espoloratore sudafricano azzarda l’elezione dei nativi del Kalahari a ultimi depositari di una congetturale umanità primigenia: «Il cuore del cacciatore», da Adelphi

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 7 aprile 2019

Da alcuni anni, nell’ambito degli studi antropologici, si fa un gran parlare di prospettivismo e di pluralità delle ontologie – il famoso antropologo francese Philippe Descola ne ha individuate quattro: animismo, naturalismo, analogismo e totemismo. In questione è il riconoscere non solo la presenza di differenti visioni del mondo culturalmente determinate, ma di differenti mondi resi possibili da sguardi prospettici che «sono» la realtà e non semplicemente la sua rappresentazione. Di conseguenza, quando un individuo achuar dell’amazzonia peruviana sostiene che «le scimmie lanose sono i miei cognati» questo enunciato deve essere preso maledettamente sul serio, e proprio su un piano ontologico, a meno di non volersi ostinare nella interpretazione di ciò che è culturalmente altro con le proprie categorie di pensiero.
Laurens van der Post, scrittore ed esploratore sudafricano, nel saggio Il cuore del cacciatore (traduzione di Francesco Francis, disegni di Maurice Wilson, Adelphi, pp. 287, e 24,00) intende prendere sul serio i San, cacciatori e raccoglitori del deserto del Kalahari chiamati a lungo e da lui stesso «boscimani» (bushmen in inglese) la cui esistenza è stata messa a dura prova dalle difficili condizioni ambientali e, ancora di più, dalla discriminazione dei differenti gruppi, bantu ed europei, insediatisi nell’Africa australe nel corso degli ultimi 400 anni.

Un duplice viaggio
Vuole prendere sul serio i «boscimani» perché affascinato dal rapporto unico che intrattengono con l’ambiente circostante, un rapporto che rimanda ai primordi dell’umanità e che il mondo moderno avrebbe ormai perduto: il volume, la cui edizione originale risale al 1961, è in effetti la prosecuzione di un testo precedentemente scritto dall’autore sudafricano nel 1958 e intitolato significativamente Il mondo perduto del Kakahari.
Il cuore del cacciatore racconta un duplice viaggio: nella prima parte, l’esperienza effettivamente consumata dall’autore all’interno del deserto sudafricano, dove il contatto diretto con alcuni boscimani gli permise di recuperare, come per magia, «il primo dimenticato linguaggio delle cose»: quel modo unico di partecipazione al mondo della natura in cui il «Boscimano» rivolge le sue preghiere alle stelle, grandi cacciatrici, e ogni essere vivente si colloca in modo armonico in storie dense di grazia e segnate dalla continua convivenza tra umani e non umani.

Soprattutto in questa prima parte è apprezzabile l’eleganza stilistica di van der Post, che in modo magistrale descrive il deserto come un luogo dello spirito, una scenografia approntata fin dall’origine della storia dell’ominazione, dove esili corpi assetati negoziano la loro esistenza mostrando un rispetto commovente nei confronti delle altre specie viventi. Dei boscimani colpiscono la grazia e la condotta equilibrata, la profonda conoscenza dell’animo e delle abitudini di ogni singolo animale e più di tutto, la loro postura discreta e incapace di prevaricare e di esprimere quel furore che è tipico dell’uomo moderno, cui sono proprie la forza distruttiva e l’incapacità di ascoltare la voce interiore che interroga l’esistenza. Questa differenza si concretizza in immagini vivide e dotate di una notevole forza espressiva, come quando i discreti fuochi accesi dai boscimani prendono le sembianze di «esili candele che bruciano devote nella notte» e mostrano la loro paradossale grandezza rispetto al fuoco acceso dall’autore e dai sodali, un fuoco «che somigliava a una cattedrale di fiamme».

Negli anni dell’apartheid
Terminato l’attraversamento nel deserto del Kalahari, van der Post si avventura, non senza coraggio e con una certa dose di imprudenza, in un viaggio nella propria mente e «nella mente dell’ormai scomparso boscimano». Forte della sua esperienza di esploratore e di un contatto prolungato con i nativi del deserto – sono ancora presenti i ricordi dell’infanzia trascorsa nel mondo rurale sudafricano – van der Post ritiene di occupare una posizione privilegiata per comprendere lo «spirito del Boscimano», il che avviene soprattutto attraverso la lettura di un corpus mitologico raccolto in gran parte da altri studiosi e riproposto, con tanto entusiasmo interpretativo e altrettanto poco rigore analitico.

Lungi dal valorizzare la specificità della visione del mondo dei boscimani per quello che è, ovvero, una forma di vita coeva ad altre forme di vita, una filosofia indigena contemporanea ad altre filosofie indigene, van der Post ritiene di cogliere nel «Boscimano» il fossile vivente, essenzializzato, incapace di partecipare alla storia dell’umanità se non da una posizione originaria, privilegiata, ma tragicamente allocronica. I nativi del Kalahari diventano così gli ultimi depositari di una congetturale umanità primigenia ai quali attribuire il compito di salvare il resto dell’umanità che si presenta frantumata, decadente e inadeguata a ogni forma di convivenza fra gruppi umani e fra umani e non umani.
Non è un caso che il testo sia stato scritto negli anni bui dell’apartheid sudafricano: lo stesso van der Post, infatti, nella parte centrale del volume constata quanto il deserto, soprattutto in certi contesti socio-politici, si sia spostato nel cuore degli umani. Ora, è lecito nutrire più di un dubbio sul fatto che il «ritorno al Boscimano» sia la via maestra per riconciliare l’umanità frantumata; nonostante ciò, van der Post, convinto oppositore dell’apartheid, mostra saggezza nel ricordare al lettore che «la piena realizzazione di noi stessi inizia col riconoscere ciò che non siamo».

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