Non sono molti in Italia i libri che affrontino in maniera sintetica e innovativa la tematica dell’improvvisazione. Nello specifico dell’improvvisazione in jazz, ritenuta a buon diritto una delle ragion d’essere di queste note meticce, anche se non caratteristica unica e inderogabile, come qualcuno invece sostiene. Ben vengano allora spunti e prospettive nuove da chi quel mondo lo frequenta con curiosità e passione, e da qualche tempo anche da musicista, traendone occasioni di riflessione anche se il lavoro precipuo è quello di critico scafato delle cose della letteratura e di carotaggio sistematico della società in mutamento. Stiamo parlando del Filippo La Porta di Improvvisazioni/Voci per un dizionario di jazz e letteratura (Saint Louis ). «Un po’ più d’un libretto di sala e un po’ meno d’un saggio», lo definisce lui, ma non credetegli: giocano di sponda conoscenza della letteratura e conoscenza del jazz nello scrivere epitomici capitoli che discutono con grazia e poesia l’essenziale su temi come «libertà», «malinconia», «leggerezza», «invisibilità». Libro dopo libro, con una produzione che va facendosi decisamente imponente, Guido Michelone, nome noto a chi legge queste righe, va componendo un affresco globale del mondo del jazz in quasi ogni risvolto. Fatica improba e che sgomenterebbe i più ma cara a chi come lui ha un animo da enciclopedista medievale, o, per dirla con Umberto Eco, non teme la «vertigine dell’elenco». Dunque è decisiva e rivendicata la libertà di scelta, l’opzione discografica che ne esclude a fortiori un’altra, in testi che devono necessariamente avere come boe di riferimento le uscite discografiche, e perfino l’eterogeneità degli scritti raccolti e risistemati in volumi di ampia campitura che fanno il punto, e restano pur sempre, «work in progress». L’ultimo uscito, in trentatré capitoli, come i giri dei longplaying in vinile, è in perfetto pendant col precedente, i jazz e i mondi, e il medesimo editore, Arcana. Stavolta è Il Jazz e l’Europa/ Nuovi ritmi e Vecchio Continente 1850-2022, dove la prima delle date va a far perno sul grande bacino di incubazione delle note afroamericane, perfettamente rintracciabile e plausibile nell’opera del riscoperto Louis Moreau Gottschalk da New Orleans, quarant’anni di vortici e ostinati ritmici sui tasti del pianoforte, jazz star ante litteram, vita avvicinabile a quella di una rockstar d’oggi. Ma con formidabili e riassuntive intuizioni su come mettere assieme mondi culturali musicali diversi: com’è poi avvenuto, e ben spiegato, qui, nel Vecchio mondo, da allora fino all’inquieto e frammentato oggi, però jazzisticamente ricchissimo.