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La grazia di una mano robotica

La grazia di una mano robotica

Incontro La designer Maria Fossati parla dei vari aspetti presi in considerazione nel progetto di una protesi

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 26 giugno 2021

La Mole Vanvitelliana di Ancona ospita il Museo Tattile Statale Omero che alle soglie del primo lockdown ha dedicato una mostra e un convegno al rapporto del designer Munari e della scienziata (e molto altro) Montessori con la forma e la materia; a giugno 2021, aspettando il solstizio d’estate e che anche sulle Marche sventoli bandiera bianca, il cerchio si chiude con l’arrivo negli stessi spazi sospesi del Festival Cinematica di Simona Lisi e delle sue riflessioni sul senso del tatto condotta con illustratori, musicisti, designer, sociologi, medici, ingegneri.
Protagonista dell’iniziativa il tocco inibito non solo dalla paura del contagio, che distanzia e copre le mani di guanti e gel disinfettanti, ma anche dal dualismo occidentale che da Platone in poi separa anima e corpo e relegano quel che lo riguarda a sfere intime e poco rispettabili. Il confessionale non aiuta, non lo fanno gli annunci nelle teche dei musei. Non lo fa il galateo. Ti tocchi? Noli me tangere. Non toccare. Chi tocca muore.

Non mangiare con le mani. Sono difficili da trovare anche le parole che esprimano l’universo attorno al tatto. Gli aromi e i sapori hanno un corredo sconfinato di aggettivi e sostantivi; la vista comanda, il contatto visivo è prova di esistenza in vita e al contempo una sentenza di condanna a morte, i social visuali lo mostrano ogni minuto.
Ospite del Festival Maria Rosanna Fossati, designer presso l’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova, nata con un’agenesia congenita all’avambraccio sinistro; è a Cinematica per parlare della finitura delle protesi robotiche e dei loro aspetti estetici e sociali. Nel viaggio in treno dalla Liguria alle Marche ha indossato per la prima volta in una sfera privata e senza nessuno sparring partner al suo fianco la mano robotica SoftHandPro al centro del progetto europeo «Natural Bionics», che normalmente utilizza come tester nelle sessioni di sperimentazione all’IIT. Esporsi al contatto dello sguardo altrui non è un cimento da poco spiega a chi, vedendola entrare alla Mole Vanvitelliana aveva notato, sotto l’orlo della sua veste svolazzante, un magnifico, catalizzante paio di scarpe senza neanche mettere fuoco la protesi. «Faccio investimenti in calzature per spostare l’attenzione» scherza.

La SoftHandPro le dona, portata con la grazia e la disinvoltura di chi da 40 anni fa i conti con una menomazione, «ma, commenta lei, per chi deve trovare una nuova estensione verso il mondo per aver perso, ad esempio, a 50 anni la mano dentro una pressa in fabbrica la faccenda cambia ». Mettere a punto una soluzione che dia più agio e naturalezza possibile a chiunque viva questa condizione è il suo compito come designer dell’inclusione sociale accanto ad ingegneri quali, in primis, Antonio Bicchi, senior scientist dell’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova, esperto di automatica, aptica e robotica.

Il racconto di Maria Fossati prende le mosse dalle parole di un drammaturgo, Roberto Fratini Serafidi, che descrivono un aspetto particolare della disabilità: quello legato alla paura di occupare uno spazio in un mondo per cui non ci si sente adeguatamente equipaggiati. Della figura di chi, come Maria Fossati, vive la mancanza di una «terminazione» Serafidi parla come di …«Venere scheggiata, con una piccola vertigine su un lato, dimezzata e in fondo felice come un gioco di parole..».

Dello spazio negato, del gioco, della giocoleria delle dita, dell’interazione sociale, ci si può riappropriare con l’aiuto protesico tecnologico da incorporare per sentirsi di nuovo completi ed estensibili quel che basta a raggiungere l’altro. Succede con la SoftHandPrp, protesi mioelettrica, in grado di chiudersi e aprirsi a partire da un impulso dato col pensiero (la tecnologia ha due sensori di placche metalliche che rilevano la contrazione muscolare azionata dal soggetto al solo pensare di chiudere la mano). Si tratta di un arto leggero, robusto, col polso passivo, flessibile, in grado di avvolgere adeguatamente tutte le forme in cui si imbatte. Con falangi mobili e capace di infinite prese. Questa mano consente interazioni sociale inedite e un controllo semplice, ma non semplicistico sugli oggetti; racconta Maria «io sono persino riuscita, conducendolo per mano, a insegnare passi di danza ad un ingegnere».

La speciale mano robotica, è poi, appunto, soft: non è rigida, è cedevole, e morbida al tatto. Maria propone di stringere la mano agli intervenuti al convegno per fare testare la consistenza e la fattura della sua protesi. Una versione aumentata, si direbbe, di quel segno della pace che non si concede più neanche a Messa, e che anche in tempi normali risulta spesso elusivo e molle e invece nella soft hand offre un contatto saldo e dolce. Un sollievo farne esperienza dopo mesi di intollerabili saluti col gomito.

Normalmente Maria Fossati indossa un’estensione robotica meno sofisticata ma che simula l’apparenza della mano, color carne e con parvenza di unghie. Ma la protesi funzionale e dichiaratamente non umana ha un’altra bellezza e dignità che non arriva a tutti. «I cyborg, ci dice, sono cattivi. Da bambina usavo un guanto che di fatto copriva un uncino. Lo odiavo. Di fatto un velo pietoso rosa carne su una protuberanza».

Hook è probabilmente il più noto e feroce esempio di personaggio fantastico mutilato e provvisto di protesi in un’epoca in cui tik tok non era un social ma la scansione ad orologeria del tempo che passa prima della deflagrazione finale. Giacomo Uncino e poi come lui Anankin di Star Wars o il protagonista di Io Robot, nel libro di Asimov e nel film di Proyas: se non sempre cattivi sono comunque ambigui i personaggi bionici, l’innesto artificiale nel corpo li rende spiazzanti come chimere. Se non si riesce a togliere gli occhi inorriditi da un moncherino, mostruosa è anche la protesi che lo rimpiazza senza mimetizzarsi.

Con la mano robotica, dimostra Maria, si può accendere una sigaretta (ma non farlo senza sensi di colpa), recuperare lo spazio della gesticolazione quello che Munari ha codificato nel supplemento al dizionario di italiano. Accostiamo l’aperitivo: mangiare tenendo il piatto e il bicchiere è un problema sia con mani naturali che artificiali. Poi però nel cortile della Mole, seduti nei gradini del tempietto neoclassico dedicato a San Rocco protettore dalla peste e dalle pandemie, davanti a gabbiani impazziti, Maria intreccia le mani sotto il mento: dita umane e dita robotiche si incastrano con insospettabile naturalezza, in un’immagine che è summa delle riflessioni della giornata, potente come l’arco voltaico che vibra tra le mani Adamo e di Dio nella Cappella Sistina. Come quello che parte dall’indice alieno di ET o dai parabolidi dei radiotelescopi puntati verso il cielo a scandagliarlo nella ricerca disperata di contatto. Quello che vogliono tutti, sublimato magari in emoji, autoscatti, in strani giorni di infiniti tocchi su schermi e pochissimo tatto verso il prossimo.

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