Non è un mistero che dietro i nomi di scrittori come George Sand, George Eliot, Vernon Lee, Isak Dinesen, James Tiptree o Robert Galbraith ci siano altrettante scrittrici, diventate celebri con un nom de plume maschile. Nel caso di Galbraith l’uso dello pseudonimo nasce dal desiderio di J.K. Rowling di prendere le distanze dal suo Harry Potter, mentre nel caso di Tiptree (alias Alice Bradley) favorì l’incursione in un territorio «maschile» come quello della fantascienza. Per tutte le altre, invece, è stata spesso una scelta obbligata per accedere alla pubblicazione o evitare la riprovazione sociale e familiare, in epoche che guardavano con sufficienza e ostilità alla produzione letteraria femminile.

Si potrebbe pensare che il caso della spagnola María de la O Lejárraga, nata nel 1874 e autrice straordinariamente prolifica di commedie, romanzi, racconti e libretti di zarzuelas, rientri in questa consolidata abitudine, perché tutto ciò che Lejárraga scrisse nel corso di una vita lunghissima (morì nel 1974 a Buenos Aires) fu pubblicato a firma di suo marito Gregorio Martínez Sierra, considerato uno di più importanti commediografi spagnoli del primo ’900 e ricordato come esponente di spicco del Modernismo. E’ a lui che sono andati la fama e i guadagni derivati da testi che, come hanno rivelato le ricerche di studiosi quali Patricia O’ Connor, Alda Blanco, María J. Matilla e molti altri, vennero interamente scritti da María.

COME MARGARET KEANE (la pittrice dei big eyes), soppiantata dal marito Walter, e come Colette, cui Willy rubò l’autorìa di fortunati romanzi, anche María fu il «negro» di un coniuge privo di scrupoli, ma, a differenza delle altre due, non lo trascinò in tribunale nemmeno dopo aver svelato la verità, con delicatezza e senza rancore, nell’autobiografia Gregorio y yo del 1953, che lasciò incredula la Spagna di allora, ma che venne confermata punto per punto, molti anni dopo, dal ritrovamento di centinaia di lettere in cui Gregorio le sollecitava con insistenza nuove opere e perfino articoletti, prefazioni e necrologi.
La storia di María Lejárraga, in realtà, si discosta da quella di qualsiasi altra artista o scrittrice abbia virtualmente adottato panni maschili, tanto che molti hanno giudicato inesplicabile la sottomissione con cui accettò di scomparire, continuando a scrivere per Gregorio (pare abbia rinunciato a firmare quasi duecento opere di vario genere) anche dopo la fine del matrimonio, quando Gregorio l’aveva abbandonata per trasferirsi in America, dove lavorò nel cinema con una certa fortuna, servendosi dei copioni e dei soggetti che la moglie continuava a inviargli.

Man mano che la storia di María è venuta alla luce, in anni recenti, molti hanno provato a decifrarla, dedicandole non solo studi approfonditi, ma, come Vanessa Monforto, anche opere teatrali (Firmado Lejárraga, 2019) e romanzi (La donna senza nome, Feltrinelli 2022). E arriva ora un documentario sulla sua vita, A las mujeres de España. María Lejárraga, realizzato da Laura Hojman (lo si può vedere sulla piattaforma Filmin), che in Spagna ha avuto un successo insolito per una pellicola non fiction, con sette mesi in sala e una candidatura ai premi Goya che verranno assegnati a giorni. Anche i libri di María, finalmente col suo nome in copertina, vengono riscattati, ed è appena uscita, a cura di Juan Aguilera e Isabel Lizarraga, la raccolta degli articoli sul femminismo, audaci e ancora attualissimi, da lei scritti nei primi anni del novecento e poi riunirti nel volume Cartas a las mujeres de España, incongruamente firmato da Gregorio. A pubblicarli è la casa editrice Renacimiento, erede di quella fondata da Gregorio e María, che portava lo stesso nome di una delle riviste da loro create, che potevano contare su collaboratori di grande nome e che ebbero una notevole importanza per la cultura spagnola della cosiddetta «Età d’argento». Inutile aggiungere che anche in questo caso era María a occuparsi di tutto, dalla contabilità alla correzione delle bozze e, ovviamente, alla stesura degli articoli firmati da Gregorio.

IL LORO SODALIZIO era nato nel 1897 a Carabanchel (borgo industriale poi inglobato nella città di Madrid), dove entrambi risiedevano e dove oggi una strada porta il nome di María Lejárraga. Lei, figlia di un medico, era graziosa e colta (parlava quattro lingue ed era diplomata alla Escuela Normal de Maestras, una rarità in una nazione dove l’analfabetismo femminile arrivava al 54%); lui, figlio di commercianti, non era istruito quanto la fidanzata, e ci viene descritto da Rosa Montero, nel suo Historias de mujeres (Alfaguara 2007), come un ragazzo sempre ammalato e «bruttissimo, senza mento, con la testa grossa e una certa somiglianza con un topo». Tra i due scoccò, dice la biografa Antonina Rodrigo, un «colpo di fulmine letterario», perché entrambi nutrivano una sconfinata passione per il teatro e la letteratura, che dopo il matrimonio li indusse a creare una sorta di «ditta» in cui lei, oltre a occuparsi della casa e insegnare come maestra, scriveva indefessamente, mentre lui dispiegava un notevole talento per le relazioni pubbliche, per l’organizzazione, per il procacciamento di fondi destinati a sostenere le loro iniziative.
Nel giro di qualche anno Gregorio si introdusse nei circoli culturali della capitale, divenne un famoso impresario e regista, nonché un commediografo e romanziere di vaglia; ma solo gli amici più stretti della coppia, come Juan Ramón Jiménez e Manuel de Falla, per il quale María scrisse i libretti di El amor Brujo e El sombrero de tres picos, sapevano che la vera autrice era lei, che al resto del mondo appariva solo come una moglie devota, pronta a tollerare per un decennio la relazione del marito con la bellissima attrice Catalina Bárcena. María si decise alla separazione dopo la nascita di una figlia illegittima che nel 1947 ereditò dal padre i diritti d’autore, mentre lei, poverissima, già anziana ed esiliata in Francia dopo la caduta della Repubblica, decideva di emigrare prima negli Stati Uniti (dove sottopose a Walt Disney una sua commediola che fu rifiutata e, pare, successivamente plagiata, vista la sua forte somiglianza con il cartone animato Lilli e il Vagabondo), poi in Messico e infine in Argentina, dove si guadagnò la vita facendo la giornalista e scrivendo racconti.

MARÍA era intelligente e piena di talento, amata da tutti per il suo carattere ottimista e il suo senso dell’umorismo, convinta femminista sin da giovanissima, membro del celeberrimo Lyceum madrileno, fondatrice della Asociación Femenina de Educación Cívica, viaggiatrice intrepida, militante socialista eletta deputata nel 1934: come aveva potuto piegarsi a quella che appare una clamorosa ingiustizia e che, soprattutto, è in così profonda contraddizione con le sue battaglie per i diritti delle donne?
A questa domanda provò a rispondere lei stessa, accampando il desiderio di riservatezza e dicendosi consapevole del fatto che un nome maschile avrebbe spianato la strada ai «figli letterari» suoi e di Gregorio, aumentandone le possibilità di pubblicazione e diffusione. Ma la risposta più attendibile la leggiamo nella sua autobiografia, quando racconta che il vero motivo della «grande impostura» fu l’amore per l’ometto malaticcio che possedeva un innegabile talento per gli affari, ma da solo non sapeva scrivere «neppure una lettera alla famiglia», che usava vantarsi del proprio successo e che non si curò delle difficoltà e della miseria di una donna da cui misteriosamente era adorato. María avrebbe continuato a scrivere per lui anche dopo l’abbandono, ideando ruoli da prima attrice destinati a Catalina, e non solo perché questo era il solo modo per mantenere in vita il loro legame, ma anche perché era ormai prigioniera di una trappola che aveva contribuito a creare. Come scrive Vanessa Montfort, era rimasta vittima di una tempesta perfetta in cui si combinavano l’amore, i caratteri di entrambi, i pregiudizi della società e la condizione delle donne spagnole, che Franco, di lì a poco, avrebbe sospinto di nuovo nel buio, cancellando ogni traccia di quello per cui María e le sue compagne avevano lottato.