Visioni

La grande illusione attraversa in filigrana parole e immagini

La grande illusione attraversa in filigrana parole e immaginiUna scena de «La grande illusione» di Jean Renoir

Cinema e idee Il libro di Jean Narboni ricostruisce lo scontro tra Renoir e Céline, al centro l’antisemitismo

Pubblicato quasi 3 anni faEdizione del 8 febbraio 2022

È un venerdì di fine gennaio al festival Premiers Plans di Angers. La sala d’essai Les Quatre cents coups è piena di studenti, di cinefili, di «narbonofili». I primi sono venuti a scoprire uno dei quattro film che Jean Renoir ha girato nel 1937, i secondi a rivederlo sul grande schermo nella versione restaurata dalla cineteca di Bologna, gli ultimi (tra cui chi scrive) ad ascoltare Jean Narboni.

Jean Narboni

IL NOME di Narboni non è forse il primo che viene in mente quando si fa l’elenco dei padri della critica. Eppure, per molti, è stato il mentore e il modello assoluto. «Jean è il mio ideale», scrive Serge Daney in alcune note private. Coltissimo, ironico, raffinato, laureato in medicina e melomane, Narboni porta nella critica di cinema la sua passione per tutte le arti. La sua scrittura, che alcuni paragonano ad una partitura musicale, è considerata la più elegante tra quelle dei Cahiers du cinéma. Entra nella redazione all’inizio degli anni 60 ed è uno dei responsabili della svolta moderna della rivista, che in quegli anni si rifà la pelle, abbandonando il classico giallo degli anni cinquanta e aprendosi alle nouvelles vagues europee e orientali. Il suo punto di vista è fondato più sulla sensibilità che su una teoria, ma è proprio Narboni a imporre un dialogo della critica con la filosofia, invitando nei Cahiers Roland Barthes e Gilles Deleuze – ed è sempre lui che introduce quest’ultimo al lavoro di Carmelo Bene. Alla fine degli anni settanta, dopo aver lasciato la direzione della rivista a Serge Daney, inventa e dirige una collezione di libri sul cinema coediti dai Cahiers e da Gallimard. Concepiti come una serie di oggetti ogni volta ripensati intorno al contenuto, ognuno di quei libri è una pietra miliare. Tra gli altri: La Rampe di Serge Daney, La Chambre Claire di Roland Barthes, Les Ecrits (1956-1978) di Nagisa Oshima per citarne alcuni.
Ritorniamo alla presentazione. Salito sulla ribalta per parlare del film (La Grande illusion di Jean Renoir) e del suo nuovo libro (La Grande Illusion de Céline, Capricci, 2021), Narboni comincia dall’abc. Il film di Renoir esce in sala nel 1937. Hitler è saldamente al potere in Germania. In Francia un’ondata fenomenale di scioperi spingono il governo del Fronte popolare a realizzare delle riforme importanti per i lavoratori. Al tempo stesso il vecchio antisemitismo anti-dreyfusiano si reinfiamma.

SU TUTTO plana l’imminenza di un nuovo conflitto che in Spagna è già alle prove generali. La Grande illusione è ambientato durante la prima guerra mondiale ma è soprattutto un film che cristallizza paure e speranze di quel 1937. La storia è quella di un aviatore francese di nome Maréchal (Jean Gabin) che, abbattuto dal nemico e imprigionato in un campo tedesco, cerca di evadere insieme ad altri compagni. Tra questi c’è l’aristocratico De Boëldieu e il parvenu di origine ebraica Rosenthal (Marcel Dalio). Tutti si rispettano, anche se De Boëldieu appartiene chiaramente ad un’altra classe, e in qualche modo ad un’altra epoca, e si trova paradossalmente più a suo agio con l’elegante ufficiale tedesco von Rauffestein (Eric von Stroheim) che con Maréchal e Rosenthal. È un film senza negatività, nota Narboni. Ci sono delle frontiere, delle appartenenze, ma nessun nemico assoluto (cosa che ne renderà difficile la distribuzione nell’immediato dopoguerra). I nemici il film li trova invece fuori di sé. Tra questi, Céline. L’amicizia tra il proletario parigino Marechal e il borghese ebreo Rosenthal è troppo per lo scrittore, che nel primo dei suoi pamphlet antisemiti si scatena con inaudita violenza contro il film.
I libri di Jean Narboni stupiscono sempre già dal titolo. Notre alpin quotidien (gioco di parole intraducibile tra pane e alpino, Capricci, 2009) è un libro di interviste e al tempo stesso un breviario della mise en scène, scritto in complicità con il regista Luc Moullet. Pourquoi les coiffeurs? (Perché i barbieri?, Capricci, 2010) su Chaplin e il dittatore che gli aveva rubato i baffetti. Non si tratta di originalità. Ma di un modo per trasferire al cinema un carattere che è anzitutto proprio della critica: il fatto d’essere un mestiere che si definisce per analogia con un altro. Nel caso de La Grande Illusion de Céline, l’esercizio di scambio è vertiginoso. La struttura è in due movimenti. Un primo grande capitolo, intitolato «Supçons», osserva e spiega la disputa, dal vivo e a distanza, tra Renoir e Céline.

NEL FARLO Narboni tratteggia il ritratto rotondo del bonario Renoir e quello spigoloso dell’istintivo Céline. La ricostruzione storica è minuziosa, precisa, informatissima, degna di un’inchiesta a carattere scientifico. Qualcuno ha detto che il libro è la storia di due ossessivi professionisti raccontata da un ossessivo amatore. Certo è che in ogni ritratto c’è un autoritratto. Così come questi due estremi avevano alcuni elementi comuni (Narboni parte proprio da questo), così è anche facile notare, per chi ne conosce la scrittura non meno che per chi la scopre, che in Narboni c’è qualcosa di Renoir e di Céline. Nella seconda parte del libro «Un trio reconnaissant» Narboni intraprende un confronto serrato e quasi personale con Céline, e il disaccordo prende il tono del conflitto.
Narboni insegue Céline fino alla fine del suo delirio, nel castello di Sigmaringen dove riparano gli ultimi collaboratori. Negli anni successivi, lo scrittore diventa sempre più paranoico – oggi diremmo complottista. Il suo razzismo sfida ogni logica e supera ogni immaginazione. Una sera, in una sala piena di agenti della gestapo, Céline dichiara che la guerra è persa e che Hilter chiaramente è stato sostituito da un sosia, di certo ebreo.
Al colmo del disprezzo per le razze non ariane, Céline inventa poi un’espressione per stigmatizzare tutte le popolazioni a sud della Loira, espressione che Jean Narboni fa sua per la dedica de proprio libro: «aux narbinoides dégénérés» (ai narbinoidi degenerati). Chi sono costoro? Sembra un’epoca lontana, tanto è assurda, quella che descrive questo straordinario libro. Eppure, basta aprire un giornale francese a caso per capire che la grande illusione di Céline è più che mai attuale.

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