La «grande cecità» del surriscaldamento
Amitav Ghosh Un’intervista con lo scrittore oggi ospite a Torino per il Salone del libro
Amitav Ghosh Un’intervista con lo scrittore oggi ospite a Torino per il Salone del libro
«No war without trade, no trade without war». Sono le parole con cui Jan Pieterszoon Coen, generale al servizio della olandese Compagnia delle Indie Orientali, giustificò lo sterminio delle popolazioni dell’isola di Banda nel 1621, la cifra della lezione tenuta da Amitav Ghosh a Venezia, in occasione del lancio del Center for the Humanities and Social Change.
«Non possiamo commerciare senza fare la guerra, ma non possiamo pagarci la guerra senza i commerci»: per l’antropologo e narratore di origine bengalese, l’inscindibile relazione tra esercizio del potere capitalistico e violenza organizzata, caratteristico dell’accumulazione coloniale, si ritrova tutta nel nesso contemporaneo tra l’universalizzazione del desiderio della merce, i cambiamenti climatici e il loro impatto.
La storia del chiodo di garofano, e della sua cinquecentesca diffusione globale dalle isole Molucche, è stato il punto di partenza del suo discorso veneziano. Che cosa ci dice del presente stato della globalizzazione?
La piccola isola di Ternate, nel cuore dell’Oceano Indiano, mi è parsa una mappa del destino umano. Le attività sismiche e vulcaniche, elementi distruttivi per antonomasia, crearono là le condizioni del suolo favorevoli alla crescita dell’albero del chiodo di garofano. Come diceva Hölderlin, «gli alberi sono i miei maestri». Per un lungo periodo il chiodo di garofano, insieme alla noce moscata e altre spezie, è stata considerata una merce di lusso, altamente desiderabile.
Del resto proprio la parola «spezia» deriva dal latino «speculum», ed esse si sono rivelate lo specchio in cui si è riflesso il desiderio di un’identità sociale, connessa al riconoscimento di uno status di ricchezza e privilegio. Dopo la partenza dei portoghesi che si muovevano in stretto rapporto con le reti commerciali veneziane, gli abitanti del luogo fecero le spese della feroce concorrenza tra le potenze coloniali di Olanda e Inghilterra che, per ottenere il monopolio della spezia, li sterminarono. Cambiate le merci, il meccanismo è rimasto lo stesso: ci avevano raccontato che i paesi dove fossero arrivati i McDonald’s non si sarebbero più fatti la guerra; oggi, invece, si combattono indossando vestiti firmati Gucci.
Il titolo del suo ultimo lavoro, «La grande cecità. Il cambiamento climatico e l’impensabile» (Neri Pozza), riferisce un tema per lei cruciale…
Oggi a Ternate gli alberi che fecero ricche le compagnie coloniali stanno morendo perché il clima è cambiato: mentre altrove ciò comporta alluvioni e inondazioni senza precedenti, là le precipitazioni atmosferiche si sono drasticamente ridotte.
Venezia, che allora contribuì all’accelerazione del commercio globale delle spezie, è diventata essa stessa una merce, l’oggetto dei desideri del turismo globale. Ed è, al tempo stesso, severamente minacciata, al pari di tante isole oceaniche e zone costiere, dalla crescita del livello medio dei mari. Paradossalmente la sua sopravvivenza economica a breve termine dipende da quei meccanismi che mettono a repentaglio la sua stessa esistenza.
Già nel 1992 – nel breve saggio «Petrofiction» – si soffermava sulla pressoché totale assenza di produzione letteraria dedicata a una delle merci fondamentali del nostro tempo, i combustibili fossili, se paragonata a quella ispirata dagli scambi della prima età moderna. Perché la letteratura entra oggi in crisi di fronte ai cambiamenti climatici?
Da molto tempo rifletto su questo tema: in fondo il mio ultimo libro è un atto di introspezione. E questa generale difficoltà è anche la mia.
La forma narrativa caratteristica dell’Antropocene, la letteratura moderna, si rivela incapace di afferrare e comprendere la portata dei mutamenti in atto.
Per questo parlo di un «grande sconvolgimento», a ogni livello. Ed è particolarmente appropriato il titolo italiano «la grande cecità», scelto dai miei impareggiabili traduttori Anna Nadotti e Norman Gobetti. Non è forse pura follia quella che spinge gli speculatori edilizi di Jennai (Madras) a proporre nuovi condomini con otto piani di parcheggi interrati, pochi mesi dopo la bomba d’acqua che ha colpito la città?
Lei riconosce come siano invece i «generi» (saggistica, fantasy, fantascienza e graphic novel) ad occuparsi a fondo del problema del clima. Che cosa non è stato ancora scritto sul tema?
Penso che, anche tra le letture critiche, l’insistenza sulle cause economiche del surriscaldamento globale rischi di farne perdere di vista l’altro fondamentale motore: il dominio politico, e le forme imperiali attraverso le quali esso si esercita. Il capitalismo combina sempre questi due aspetti.
E persino l’ottimo libro di Naomi Klein ci ricorda che è più facile pensare in termini economici che in termini di potere. Non so quale sarà il libro capace di coglierne tutte le sfaccettature, ma di certo il tema dominante del cambiamento climatico entrerà in qualsiasi cosa io scriverò da qui in avanti.
Nel libro, e nella sua lezione, ha insistito sull’ambivalenza del fenomeno migratorio. E sullo scacco cui sono destinate le politiche che pretenderebbero di arrestarlo …
Pochi sanno, per esempio, che la maggior parte degli immigrati provenienti dal Bangladesh a Venezia, che si dedichino al commercio ambulante, alla ristorazione o al lavoro di fabbrica a Mestre e a Marghera, provengono per il novanta per cento dal medesimo piccolissimo distretto di Madaripur. Una zona particolarmente colpita dalle alluvioni nel delta del Gange, che da temporanee si sono fatte sempre più frequenti e permanenti. Sono «profughi ecologici» che hanno scelto la Laguna come loro nuova casa.
Certo guerre, miseria e disastri ambientali sono tra le cause dello spostamento di intere popolazioni, ma questa è solo una parte della storia. Ho appena girato per due settimane l’Italia, visitando anche i centri di detenzione e incontrando centinaia di migranti: per molti di loro sono desideri e sogni di una vita diversa e migliore la principale spinta a muoversi. E ai politici, pieni d’odio, che dicono di voler fermare l’immigrazione domando: pensate davvero di essere capaci d’impedire alla gente di sognare?
Una delle difficoltà ad affrontare politicamente cause ed effetti del surriscaldamento, secondo lei ha a che fare con i limiti delle stesse culture ambientaliste, con il rischio di anteporre la considerazione moralistica dei «comportamenti individuali» alla necessità di intraprendere «azioni collettive» …
Le scelte individuali di stili di vita e di consumo sono senza dubbio rilevanti. E oggi l’individuo sembra scomparire di fronte alla produzione di massa del desiderio di merci. Al tempo stesso però tutti i problemi sono visti come il frutto esclusivo di scelte individuali, mentre non si può nemmeno cominciare ad affrontare i cambiamenti climatici se si parte dal livello individuale.
Queste illusioni sono il frutto dell’egemonia della cultura neoliberista, che pretende di ricondurre tutto all’individuo. Si scrive molto d’ «impronta ecologica». Ma negli Stati Uniti ci si dimentica che il più grande consumatore energetico, e produttore di gas serra, è proprio il Pentagono. È questa la strana cecità che occulta i fattori strutturali. Credo che il primo capitolo di Furore di Steinbeck sia una «climate novel» ante litteram e ci spiega con straordinaria efficacia l’importanza decisiva dell’azione collettiva. Oggi è più che mai indispensabile immaginare innanzitutto una collettività umana per poter combattere il cambiamento climatico.
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(Si ringraziano per la collaborazione Barbara Del Mercato, Shaul Bassi e Thomas Carlson)
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Oggi alle ore 16, presso la Sala Azzura del Salone del Libro di Torino, Amitav Ghosh terrà una lectio magistralis dal titolo «Il cambiamento climatico e l’impensabile» in occasione del lancio del suo ultimo libro «La grande cecità».
Lo stesso tema è stato al centro della conferenza con cui lo scrittore indiano ha inaugurato mercoledì scorso all’Università «Ca’ Foscari» di Venezia, insieme al rettore Michele Bugliesi, l’International Center for the Humanities and Social Change.
Il centro è stato voluto ed è sostenuto dall’imprenditore tedesco Erck Rickmers, come nodo di una rete di studio e ricerca capace di sviluppare, in rapporto con le scienze umane, un’analisi critica delle trasformazioni economiche e produttive globali, a partire dal loro impatto sociale e dalla valutazione dell’insostenibilità dell’attuale modello capitalistico e dei sui crescenti squilibri e diseguaglianze; e di provare a elaborare soluzioni innovative per i decisori politici.
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