In Italia i più ricchi sono quelli che pagano meno tasse; l’aliquota fiscale sulla distribuzione del reddito è solo moderatamente progressiva fino a circa il 95esimo percentile, mentre per il 5% dei percettori di reddito più ricchi il sistema fiscale è regressivo. Per i «molto ricchi», l’aliquota reale – ottenuta combinando diverse fonti di dati – è più bassa.

Una delle cause principali di questa ingiustizia fiscale è la diversa tassazione delle rendite da capitale rispetto a pensioni e redditi da lavoro. Il possesso di rendite finanziarie e di redditi da locazioni immobiliari tassate con aliquote variabili tra il 10% e il 26%, comporta un vantaggio fiscale per chi ne possiede di più, cioè i più ricchi.

È, questo, il risultato della ricerca di Demetrio Guzzardi, Elisa Palagi, Andrea Roventini, Alessandro Santoro (Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa e Università di Milano – Bicocca) pubblicata dalla rivista scientifica Journal of the European Economic Association. I risultati sono molto simili a quelli ottenuti dal Global Tax Evasion Report per Stati uniti, Francia e Olanda, dove però il sistema diventa regressivo solo per i «super-ricchi» (lo 0,1%). Stessa tendenza quindi, che però si manifesta a valori diversi. I risultati della ricerca sono stati ripresi nei giorni scorsi da molti dei principali quotidiani italiani, a conferma che la buona analisi scientifica può contribuire a costruire in modo fondato il discorso pubblico.

L’architettura del sistema fiscale, però, è un tabù per la classe politica del paese, almeno di quella che l’ha governato in questi decenni. Se la destra è apertamente contraria alla progressività fiscale, il centro-sinistra non ne ha mai fatto uno dei suoi cavalli di battaglia e il Movimento 5 Stelle è, sul tema, su posizioni neoliberali che strizzano l’occhio a chi di fisco non ne vuole tanto sapere. Se Elly Schlein richiama ogni tanto, in modo più evocativo che politico, la «patrimoniale», il tema della fiscalità non scalda il cuore del partito.

La sinistra radicale, invece, ne fa uno dei suoi temi. Così è per Sinistra Italiana e per Unione Popolare, voci però isolate e tra loro non coordinate, con la prima che ha scelto di non uscire dall’orbita del centro-sinistra e la seconda che fatica a trovare una formula organizzativa e politica unitaria fuori da quell’orbita.

Su questo giornale, Emiliano Brancaccio qualche giorno fa ci ha ricordato la rilevanza politica della progressività fiscale e di una diversa tassazione tra capitale e lavoro: «Negli anni Settanta esistevano ben 22 aliquote di prelievo fiscale sul reddito, con la più bassa al 10% e la più alta che arrivava al 72%. Oggi sono appena 3 con la più alta crollata al 43%, senza contare gli speciali favori ai redditi da capitale». Si tratta del cosiddetto «modello duale», che nasce in un contesto caratterizzato da liberalizzazione dei mercati finanziari e valutari e, conseguentemente, dalla libertà di movimento dei capitali. Per contrastarlo, è necessario ricomporre la base imponibile in modo univoco con regole che limitino il movimento dei capitali, con provvedimenti contro l’elusione fiscale, con misure di contrasto all’evasione e, solo successivamente, introdurre più progressività fiscale.

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Se si chiede maggiore progressività senza ricostruire la base imponibile, ci si scontra con le resistenze di coloro che ritengono una maggiore progressività fiscale e l’introduzione di un prelievo patrimoniale «solidali ma iniqui», appunto perché agiscono su una base imponibile solo parzialmente visibile. Questo ultimo punto è, in realtà, indice di un problema più ampio: come accendere le passioni degli elettori sulle «cose giuste da fare»? Non è infatti sufficiente che qualcosa sia giusto, scientificamente solido e teoricamente necessario per trasformarlo in azione politica.

Giustizia fiscale, buoni lavori, universalismo, pace, deliberazione pubblica, redistribuzione del potere: tutti principi cari alla sinistra. Ma che non accendono le passioni dell’elettore. Passioni mute, potremmo chiamarle, l’evoluzione in chiave politica delle passioni tristi a suo tempo evocate per denunciare la tristezza diffusa che caratterizza la società contemporanea.

Mute perché non parlano alle identità e alle appartenenze; alla vita quotidiana delle persone-nei-luoghi; ai sentimenti di giustizia diffusi nei territori, specie in quelli «che non contano» e sono «lasciati indietro».

Spesso, mute perché la voce che le articola nel discorso pubblico proviene da una classe politica priva di credibilità, o perché manca la capacità di comunicarle in modo adeguato. Oppure perché si è sgretolato un meta-discorso fondato sul desiderio collettivo per un «futuro più giusto» che faccia appello alla parte emozionale delle persone: alle loro paure, sentimenti, pulsioni, speranze, esigenze di protezione. Leve che, per i propri scopi, la destra sa invece usare molto bene.